Il film del weekend

"Babylon", l’Hollywood dissoluta degli albori diventa puro cinema

Un film travolgente e di abbagliante audacia con cui Damien Chazelle celebra le radici del cinema americano, smascherandone le amarezze del dietro le quinte e la caducità del sogno

"Babylon", l’epopea dissoluta sulla prima Hollywood è puro cinema

Babylon”, tenendo fede al titolo, è un film che ritrae l’Hollywood delle origini come l’antica capitale di caos, vizio e lussuria descritta nella Bibbia e nei classici. Di quella antica città multietnica Damien Chazell evoca il potere e il fascino tentatore.

Con un’opera che mette in luce sia il sogno connaturato al mondo del cinema sia la dannazione che si cela in certi suoi meccanismi, Chazell omaggia la settima arte e allo stesso tempo sancisce la condanna morale dell’industria che la vede coinvolta.

Sia chiaro da subito che per godere appieno dello spettacolo che per oltre tre ore abbacina gli occhi dello spettatore, “Babylon” va visto in sala perché un così incomparabile giro di giostra è da vivere su grande schermo.

Difficile pensare a un’opera più divisiva, in grado di essere abbracciata e amata in tutta la sua grandiosa follia oppure detestata proprio in virtù di quella. Almeno però si riconosca il talento innegabile di chi l’ha girata. Chi scrive ritiene che con “Babylon” ci si trovi di fronte al terzo capolavoro firmato dal giovane Chazell: dopo il drammatico "Whiplash" (2014) e il romantico "La La Land" (2016), ecco la svolta con l’autoindulgente ebbrezza di “Babylon”. Di trascurabile nella filmografia del regista statunitense c’è forse stato solo il biopic spaziale “First Man” (2018), ma è indubbio che il nome del cineasta sia una garanzia di estro, genialità e soprattutto di padronanza del mezzo registico. Nessuno nella sua generazione domina la materia cinema come lui, capace di plasmarla a proprio piacimento.

“Babylon” si concentra su tre personaggi accattivanti della Hollywood degli anni ’20 e li segue durante il difficile passaggio dal cinema muto al sonoro.

Manuel (Diego Calva) è un giovane e timido messicano che sogna di poter calcare un set cinematografico e nel frattempo si accontenta di essere il factotum di un produttore. Mentre è presente come assistente a uno dei party selvaggi del suo datore di lavoro, conosce la spregiudicata Nellie LaRoy (Margot Robbie). La ragazza è decisa a diventare una star del cinema e, grazie ad una circostanza fortunata, avrà la sua occasione proprio al termine della festa. Alla stessa serata partecipa Jack Conrad (Brad Pitt), grande star della MGM che, tra matrimoni falliti e un alcolismo schiavizzante, finirà per imboccare presto il viale del tramonto.

Le tre direttrici narrative, ognuna delle quali racconta le vicissitudini private e professionali dei suddetti personaggi, si intersecano continuamente.

Le inquadrature sono spesso sovraccariche ma nulla è lasciato al caso: perfino il baccanale d’apertura è un trionfo di edonismo tanto frenetico quanto calcolato. L’erotismo dissoluto, i liquidi corporei, gli escrementi, tutto si mischia e concorre a creare un’esperienza da capogiro, a tratti respingente eppure, nel complesso, divertente. Questa Babilonia carnevalesca funziona più sul versante comico che su quello drammatico e nella sua magniloquenza febbrile si sente l’eco di film tra i più disparati, da “Viale del tramonto“ a “Hollywood party”.

Margot Robbie è la regina indiscussa di questa festa visiva. Dotata di grande espressività e di sensualità dirompente, l’attrice ha una presenza magnetica. Il vitalismo erotico del suo personaggio ammalia e i tormenti nascosti dietro al temperamento senza freni si svelano un po’ alla volta. Molly sogna il cinema non per i vantaggi materiali ma per appagare il desiderio estenuante e coraggioso di far parte di qualcosa di più grande e che la proietti nell’eterno che è precluso all’essere umano per nascita. La confusione, i compromessi, i successi e i fallimenti restano però fuori campo quando, al momento del ciak, la magia si compie sul set con una facilità fasulla.

Anche il suo amico Monny, pur con tempi più lunghi, riuscirà ad elevarsi dalla condizione di galoppino e a diventare addirittura un produttore. Il cinema in questo senso è ora una sorta di entità divina in grado di concedere infinite possibilità, ora una sorta di “vitello d’oro”.

“Babylon” critica uno star system sessista e razzista, mostra la natura effimera della fama, la lotta necessaria per mantenersi in vetta e il rischio continuo di venire stritolati da un momento all’altro dall’ingranaggio. Il film spiega bene come per l'industria dell’intrattenimento le celebrità siano usa e getta e come l’unica salvezza sia forse abbandonare le luci della ribalta proprio come fa il jazzista Sidney Palmer (Jovan Adepo).

Al netto di venti minuti di troppo che contribuiscono poco o nulla all’andamento della trama e che sarebbe stato meglio sacrificare, il film è un’esperienza memorabile perché al contempo animalesca, tragica, disperata eppure altrettanto vitale e ipnotizzante.

Onestamente si esce dalla sala come sbronzi e magari non resterà molto il giorno dopo la visione, ma si avrà comunque l’impagabile e irripetibile percezione di essere stati investiti da scene dalla bellezza scalmanata e complessa.

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