Cinema

“Io Capitano”, Garrone smarca i suoi migranti dalla strumentalizzazione

Un’opera cristallina e universale, che racconta l’odissea di due ragazzini senegalesi con il sogno dell’Europa, ma si ferma subito prima di toccare il tema scomodo dell’accoglienza

“Io Capitano”, Garrone smarca i suoi migranti dalla strumentalizzazione

Ascolta ora: "“Io Capitano”, Garrone smarca i suoi migranti dalla strumentalizzazione"

“Io Capitano”, Garrone smarca i suoi migranti dalla strumentalizzazione

00:00 / 00:00
100 %

Io Capitano”, il film con cui Matteo Garrone partecipa per la prima volta alla corsa al Leone, è il più atteso di quest’oggi al Lido. L’opera racconta un’odissea contemporanea, quella di due giovani senegalesi (gli esordienti Seydou Sarr e Moustapha Fall), che pensano di raggiungere l’Europa attraverso un viaggio avventuroso ma senza comprenderne appieno le difficoltà infernali. A poco valgono gli avvertimenti materni e i racconti dell’orrore di un reduce che ha visto con i propri occhi i cadaveri lasciati lungo il tragitto. I due sedicenni, cugini tra loro, lavorano in segreto e risparmiano soldi da sei mesi, convinti non solo di raggiungere l’Italia ma di coronare il sogno di diventare star della musica. Per lasciare Dakar però si danno anche una giustificazione più realistica, ossia quella di aiutare poi col denaro la famiglia lasciata in Africa. Inseguono un benessere che è quello spacciato come tale dalla tv e da quanto visto sul telefono via internet, di sicuro non credono di andare verso un’ipotetica morte. Inforcati giubbotti contraffatti in cui sono urlati i loghi di Louis Vuitton e Gucci, vanno incontro a un’idea altrettanto fake di vecchio continente in stile Paese dei Balocchi. Sì, perché questo “Io Capitano” è un Pinocchio forse più riuscito di quello che Matteo Garrone ha dato alle sale ormai quattro anni fa. C’è anche qui l’innocenza di partenza di ogni coming-of-age e che verrà lasciata lungo il percorso, ci sono incontri con disonesti, miraggi e raggiri, necessari per diventare la versione nuova di sé.

I due protagonisti di “Io capitano” vengono subito risucchiati in quello che si capisce essere un sistema rodato, una catena di montaggio in cui sono forniti passaporti e quant’altro dietro compenso. Ogni passo falso commesso, nel primo pezzo del tragitto, è perdonato come d’incanto col versamento di denaro. Seguiranno poi, in crescendo, le tappe di una vera via crucis, tra la traversata del deserto, le torture in terra libica e i pericoli in mare.

Nulla a che vedere con il Matteo Garrone che abbiamo imparato a conoscere fino a qui, quello dallo stile visivo baroccheggiante. L’undicesimo lungometraggio del regista romano si priva del grottesco e mantiene solo due piccoli incisi di realismo magico (in due sogni), ma in generale sposa una narrazione semplice e diretta. Viene assunto il punto di vista dei giovani protagonisti, come in un lungo controcampo rispetto alle immagini che siamo abituati a vedere dalla nostra angolazione occidentale.

Garrone si astiene da qualunque opinione politica, disquisizione in merito all’accoglienza, ai porti aperti e chiusi, ai morti annegati a un passo dalla riva. Il suo film si arresta un momento prima.

Quello raccontato è un viaggio della speranza non compiuto da disperati, da persone che fuggono da zone di guerra o da carestie dovute al cambiamento climatico ecc. Semmai da gente che lascia una povertà decorosa, una vita fatta di affetti e un quotidiano comunque sorridente, barattando tutto con un azzardo che ricorda la roulette russa.

“Io Capitano” è quindi il resoconto delle conseguenze di “un grande bluff”, vale a dire la visione della vita edulcorata e paradisiaca che hanno dei paesi europei in Africa, dove il 70% della popolazione è costituita da giovani e quindi individui nell'età delle illusioni.

Sullo schermo seguiamo un viaggio ispirato a cinque storie vere, in cui non c’è tempo per la pietà, la selezione è naturale ma anche casuale, gli uomini sono carne da macello da smistare o vendere e il ritorno sui propri passi è escluso perché materialmente impossibile.

“Io capitano” non è uno spot anti-partenza destinato ai giovani africani, bensì una lezione di consapevolezza. Cosa manca a renderlo il destinatario dell'ambito Leone d'Oro (che comunque gli auguriamo di vincere)? A dirla tutta, malgrado sia eccellente dal punto di vista della costruzione del racconto e della messa in scena, il film non entra nelle viscere, non commuove tanto quanto dovrebbe, né segna come un pugno ben assestato. Forse è lo spettatore a essere in difetto, orrendamente desensibilizzato dalla litania di anni di dibattiti politici sulla questione. Proprio ieri un altro film in concorso, “Il confine verde”, sui rifugiati palleggiati tra Polonia e Bielorussia aveva coinvolto di più, magari perché una variante geografica delle migrazioni in parte inedita per l'opinione pubblica.

Astenersi dal regalare alla sala un epilogo vero, un po’ nuoce all’impatto dell’opera. “Io capitano”, fermandosi a un passo dalla costa e quindi anche dalla successiva disillusione, lascia l'odissea inconclusa (essere ancora vivi è un lieto fine temporaneo), tranciata di netto per evitare strumentazioni politiche di sorta. Comprensibile certo, ma anche la prudenza ha un costo.

In oltre 200 sale da domani, il film resterà in lingua originale, wolof.

Commenti