Dopo Venezia, la Palestina al Festival del Cinema di Roma è già "sbiadita"

Pochi gesti plateali e attori in "profilo basso", mentre il regista Alireza Khatami accusa il Festival di essere uno "strumento del potere coloniale" e Jasmine Trinca invoca l'empatia

Dopo Venezia,  la Palestina al Festival del Cinema di Roma è già "sbiadita"
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Chissà perché il tema palestinese non ha avuto la stessa eco durante il Festival del Cinema di Roma rispetto a quella avuta durante la Mostra del Cinema di Venezia. Gli attori hanno tenuto tutti un profilo pressoché basso, nessun eccesso plateale è stato registrato, segno, forse, che il tema sta passando di moda in certi ambienti, in attesa di un altro che sia capace di catalizzare le attenzioni. Tuttavia, questo non vuol dire che la Palestina non sia entrata anche durante questa manifestazione.

Alireza Khatami, regista iraniano-canadese vincitore per la migliore sceneggiatura di The Things You Kil ha mosso una generica accusa ai Festival del cinema, "di essere stati creati come uno strumento statale per servire gli interessi del potere coloniale". E ha aggiunto che "non siamo così ingenui, non siamo così stupidi. Non confondiamo il vostro razzismo così schietto con la neutralità. Non c’è neutralità nel genocidio e ci ricorderemo di chi è quel red carpet inzuppato di sangue". Un proclama come altri se ne sono sentiti negli ultimi mesi e due anni, che ha anche una sfaccettatura ipocrita, perché arriva durante uno di quegli eventi che lui stigmatizza, che però lo premiano. Qualcuno potrebbe anche obiettare che il regista potrebbe anche aver usato strumentalmente a proprio vantaggio quel palcoscenico per amplificare la propria voce. Un circolo vizioso senza testa né coda che potrebbe andare avanti all'infinito.

Anche Jasmine Trinca, premiata come miglior attrice per gli Occhi degli altri di Andrea De Sica, ispirato al caso Casati-Stampa, è salita sul palco per un discorso sui temi legati alla Palestina, dichiarando che "abbiamo tutti una fortuna, perché il cinema ci costringe all'empatia ci costringe a stare seduti, a guardare che le cose accadano e che le cose esistano. Ad ascoltare la voce, la voce di qualcuno, la voce di una bambina di sei anni che viene ammazzata da gente disumana in Palestina, come la voce di una donna, che cerca nel proprio corpo, nel proprio desiderio, la voglia di libertà e di emancipazione".

Quindi, è la conclusione dell'attrice, "il mio pensiero è veramente per tutte le donne che questa voce l'hanno trovata, per quelle che non pensavano di averla, per quelle che, mentre la cercavano, sono state azzittite da uomini violenti". Tutto bello e tutto interessante, ma il punto resta: sembra che lo slancio solidale per la Palestina abbia esaurito la sua spinta in certi ambienti. Avanti il prossimo.

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