Tra i «maestri»: Gino Valle, Vittorio Gregotti, Giancarlo De Carlo, Alvaro Siza. Tra i «nuovi grandi»: Norman Forster, Renzo Piano, Richard Rogers e Jean Nouvel. Tra gli «apprendisti pazienti», meno celebrati ma stimolanti, Rem Koolhaas, Mecanoo, Foreign Office, Chaix e Morel. Pollice verso invece per Frank O. Gehry, Daniel Libeskind, Bernard Tschumi, Zaha Hadid: le loro creazioni sono tormentoni, ripetuti per il mondo alla ricerca di soldi e successo. Leonardo Benevolo, il decano di storia dell’architettura del Novecento, classe 1923, mostro sacro riconosciuto per chiunque voglia valutare una qualsiasi costruzione pubblica o privata, ha idee chiare e molta voglia di esprimerle. Ospite attesissimo al Festival Città Territorio di Ferrara dove presenterà un intervento dal titolo Che cos’è l'urbanistica?, in questi giorni è in libreria con la nuova edizione di L’architettura del nuovo millennio (Laterza, pagg. 528, euro38), in cui spiega che cosa è successo all’architettura negli ultimi trent’anni.
Professore, come sta l’urbanistica?
«Subito dopo la guerra e per una trentina d’anni l’urbanistica è stato uno degli argomenti più popolari e più discussi. Poi è iniziata l’involuzione. Fino alla paralisi. Siamo in un momento in cui dall’urbanistica italiana non si riesce ad ottenere niente».
Lei dove comincerebbe?
«Non ci sono ipotesi o alternative: per vedere come si fa l’urbanistica bisogna guardare alle grandi città europee. I paesi più progrediti hanno capito che bisogna riuscire a condurre lo sviluppo delle città come accadeva agli albori. Il principio supremo era il compromesso tra il potere pubblico e una pluralità di iniziative private».
Una nuova forma di oligarchia urbana?
«Non ci deve essere un re, un dominatore che crea le città con il suo modo di pensare, ma un’operazione collettiva».
Un esempio concreto?
«Io mi sono a lungo occupato di Venezia: è una città composta di quindicimila pezzetti attaccati l’uno all’altro. Nel punto in cui si attaccano, all’apparenza non c’è niente che torna. Eppure quando guardiamo Venezia non possiamo fare a meno di trovarla meravigliosa. Una città armonica, in cui le differenze non interferiscono l’una con l’altra».
Nel suo ultimo libro ha dedicato alcune pagine a Milano, la città il cui sviluppo da oggi al 2015 è sulla bocca di tutti.
«Milano adesso è preoccupata di assecondare l’opportunità dell’Expo. Ma ha già sprecato le sue grandi occasioni».
La più grande di tutte qual era?
«Utilizzare al meglio la dismissione delle grandi aree industriali. Qui l’armonia è stata del tutto dimenticata: le aree non andavano considerate una per una, ma nella totalità».
Lei ha scritto «La rovina del paesaggio italiano non è avvenuta per caso o per incuria: è stata pagata in contanti». Vale anche per Milano?
«Le aree di cui le parlavo, la Bicocca, la Falck, la Montedison, nel caso di Milano, erano già valorizzate. Si è lasciato che le industrie le vendessero ai privati. E la possibilità di ottenere un risultato complessivamente ordinato è svanito. Ognuna di queste aree si è regolata alla sua maniera. Al solo scopo di rivendersi successivamente ad un prezzo maggiore di quello iniziale».
La solita vecchia storia della speculazione edilizia?
«Non mi fraintenda: in una città composta di diversi interessi che si armonizzano tra loro c’è posto anche per la speculazione edilizia. Ma se si lascia che le compravendite si succedano l’una all’altra il progetto finale non conta più niente. E non interessa a nessuno».
Come si sarebbe dovuto procedere?
«L’amministrazione pubblica doveva acquistare le aree e poi deciderne lo sviluppo complessivo. Ovviamente remunerando gli interessi già esistenti. Ormai la partita è perduta».
Che ne pensa dei progetti in corso?
«Lei come si spiega che nel concorso Citylife abbia vinto il progetto peggiore?».
Lo chiedo a lei.
«Si trattava di un appalto a concorso in cui i candidati alla realizzazione dovevano offrire una somma e poi fare un progetto. Di fatto ha vinto quello che, anche solo di poco, ha offerto la cifra più alta».
Ma si tratta di «archistar», come Daniel Libeskind, Zaha Hadid, Isozaki, il cui valore è riconosciuto nel mondo. Lei invece parla di «modesti progetti clone»...
«Il valore di impressionare la gente facendo edifici di forma strana. Sono a torto considerati architetti bravi. Quando non c’è l’abitudine di scegliere a ragione veduta si finisce per utilizzare la fama usurpata».
Lei definisce le torri di Citylife «sculture gesticolanti che è difficile immaginare realizzate in grandezza naturale».
«Quei tre grattacieli sono uno peggio dell’altro. La punizione è già pronta: ottenere forme strane costa. Finiranno per non farli».
Eppure a Berlino, una delle città europee urbanisticamente illuminate, Libeskind è piaciuto parecchio.
«Perché lì le forme storte del suo museo sull’ebraismo servono a sottolineare aspetti drammatici della storia di Israele. Ma poi lui ha mangiato la foglia e ha capito che le storture diventavano fortuna. E le ha rifatte a destra e a manca senza pensare allo scopo».
Almeno il Museo di arte contemporanea le piace?
«Un altro orribile progetto. Un museo non può risultare un edificio così particolare che la gente va a vedere l’involucro invece del contenuto. Deve essere uno sfondo, non il protagonista. Quando uno disegna un museo senza neanche sapere che cosa ci va dentro e gli dà una forma così complicata come quella di Libeskind, va cacciato e non deve più mettere le mani in cose di questo genere».
Ma la creatività?
«L’architettura non si fa con la creatività. È una vicenda complessa, come la politica. Sono cose lunghe, che non si accorciano con la città ideale: a volte servono grattacieli, a volte case di tre piani».
Milano nei prossimi dieci anni.
«Quello che è successo non lascia ben sperare. L’Expo dura a lungo ma meno di un anno e può riuscire bene o male. Bisogna decidere se costruire edifici che si conserveranno o no. Oppure mescolare le due cose».
Un progetto che le piace?
«Quello di Renzo Piano nell’area Falck di Sesto San Giovanni. Ha trovato un grande capannone e ha capito che dentro potevano esserci sistemate delle cose. Così uno le va a vedere. E l’architettura rimane in sottordine».
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