Con «La città invisibile» il sisma diventa commedia

RomaNon di solo Clooney vive il terremoto. Se infatti il chiacchierato George sta girando proprio in queste ore L’Americano, thriller ambientato sul territorio di Collemaggio, tra quel che resta del posto, in un camping a ridosso di Acilia Giuseppe Tandoi, giovane regista pugliese al suo esordio, è all’ultima settimana di riprese de La città invisibile, commedia dalla missione (quasi) impossibile: raccontare la tragedia del terremoto di aprile con toni leggeri e con un cast under 35. «Voglio parlare ai giovani, per indicare loro un senso di speranza. E seguo il concetto, tutto americano, di partire da un dramma per planare sul gioco e sul sorriso», spiega il ventisettenne Giuseppe tra le otto tende blu che la Protezione civile ha prestato alla produzione. A conferma del fatto che, insomma, uno il coraggio se lo può anche dare.
E questa singolare operazione («Non abbiamo neanche un distributore, ma pensiamo di rivolgerci a Medusa, o alla Rai», dice Emanuele Nespica, coproduttore, con la sua Fabbrichetta, e cosceneggiatore, con Tandoi e Mario Rellini) parla chiaro: in Italia il cinema indipendente esiste, però non fa rumore. «Mi gioco l’eredità: o la va o la spacca», sospira il regista, nativo di Corato e che nella Puglia natia ha scovato tre padroni d’un mulino, in grado di aggiungere un altro po’ di soldi a tale low-low budget (così, in gergo, gli sforzi produttivi al minimo livello). 500mila euro è il costo de La città invisibile, patrocinato dal ministero della Gioventù e dalla Protezione civile, che ha ospitato la troupe tra Santa Rufina, Roio e Collemaggio sotto le tende ora piantate nei dintorni di Roma.
Ma com’è nata l’idea di trasformare un dramma collettivo in risata liberatoria? «Nei giorni del terremoto ho vissuto nella tendopoli di San Gregorio e Gignano, dove si sono verificati severi problemi di convivenza: gli abruzzesi non volevano dividere i loro spazi con gli albanesi, i marocchini e i romeni. Si parlava di erigere un muro, dentro alla tendopoli», racconta il regista, formatosi all’Accademia dell’immagine dell’Aquila, ancora inagibile. «Così ho messo in piedi un laboratorio cinematografico, con i ragazzi della tendopoli, per raccontare quanto stava accadendo. Da qui ecco l’idea di narrare, in modo più completo, le dinamiche di quella convivenza». E allora vedremo Roberta Scardola (Valeria), da I Cesaroni in poi, incarnazione della biondina tumistufi, mentre implora il papà (Federico Fiorenza, ex direttore del Teatro Stabile aquilano) di portarla via da quella tendopoli, dove ha perso la testa, lei, signorina bene e figlia d’un razzista, per un ragazzo albanese (Leon Cino, ballerino e star televisiva di Amici). Poi c’è un nonno anarchico (Riccardo Garrone, attore teatrale e volto noto di spot tv) che va a dormirsene sugli alberi, a contatto con le stelle. Intanto, a tenere insieme quelle anime riottose, ci pensa don Juan (il comico Gabriele Cirilli), un prete colombiano realmente attivo tra i terremotati di quei terribili giorni di aprile. «Il terremoto è metafora del cambiamento possibile. Quando tutto crolla anche le maschere vengono meno e si è costretti a mettersi a nudo, a reinventarsi nella verità nuda e cruda, persino migliorandosi», specifica Tandoi, che non ha santi in paradiso, né parenti nello star-system. «Mio padre voleva che facessi l’ingegnere, invece, eccomi qui», sorride.

Le pecore dell’Agro romano, al tramonto, si mettono a belare; qualcuno urla: «Motore!», la Scardola ripete la sua scena ancora e ancora. E tutti sembrano intestardirsi a testimoniare qualcosa, lavorando fino a che luce rimanga.

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