Politica

La cittadinanza è un diritto ma evitiamo troppa retorica

Certi cavilli sono imilianti in una realtà già multiculturale

La cittadinanza è un diritto ma evitiamo troppa retorica

L’Italia di domani sarà, di diritto, ciò che oggi è già nei fatti: ossia, un’Italia multicolore. A qualcuno la cosa potrà spiacere, qualcun altro potrà esserne entusiasta e altri, infine, potranno essere del tutto indifferenti dinanzi alla cosa. Quale che sia l’opinione che abbiamo, la strada è segnata e le ragioni le conosciamo tutti.
L’uscita del presidente Giorgio Napolitano va collocata entro questo quadro: parla di un mondo in cui le distanze si riducono e l’esigenza di interagire in maniera positiva con persone di altra cultura si fa sempre più evidente.
Questa trasformazione radicale del nostro tessuto sociale comporta certo problemi, spesso concreti, che non possono essere ignorati. Lo statalismo degli ultimi due secoli ci ha trasformati in comproprietari di beni pubblici consistenti: e ogni immigrato che diventa italiano è un titolare in più. In questa situazione non è sorprendente che qualcuno resista; senza dimenticare la connessione tra immigrazione e delinquenza. Sono questioni reali, anche se non giustificano alcuna demagogia: di qualsivoglia colore.
Se da un lato non si può dunque essere superficiali, egualmente bisogna riconoscere che Napolitano ha ragione quando segnala le esperienze dolorose di chi nasce da noi, cresce qui, magari parla solo l’italiano e però è discriminato da uno Stato impiccione che pretende in ogni momento che gli si mostrino i documenti. Tutte queste sciocchezze vanno eliminate e se per farlo si tratta di dare la nazionalità ai figli di immigrati, lo si faccia.
Nella presa di posizione di Napolitano c’è però molto altro. Essa va letta, infatti, entro una più ampia mobilitazione retorica in senso nazionale che vede protagonista l’ex-militante al servizio di un dio fallito (il comunismo). L’Italia, insomma, come surrogato del Proletariato, oltre che quale giustificazione del suo stesso ruolo presidenziale.
Perché quello sui figli degli immigrati non è solo un dibattito sul dovere di rispettare ogni uomo in quanto tale, come è giusto che sia, ma manifesta anche il tentativo di tenere in vita quella religione dell’italianità che è ormai il rifugio di tanti orfani delle ideologie che hanno dominato gli ultimi due secoli.
Il problema di fondo, però, è un altro: e cioè che non si può più continuare a ragionare con le logiche ottocentesche del «patriottismo», come se essere italiano (specie se i genitori sono del Mali) volesse dire davvero altra cosa che essere francese, o svizzero, o americano. C’è allora una sproporzione tra la realtà già multiculturale dell’Italia e le regole che umiliano i nostri vicini di casa con la pelle nera, ma una distanza ancora maggiore divide la realtà di tutti noi dalla retorica risorgimentale di chi pensa che immettere un po’ di sangue nuovo nel cadavere degli Stati nazionali possa servire a riportarli in vita. Per migliorare la qualità della nostra convivenza dobbiamo abbandonare le mistificazioni delle religioni civili che tanti drammi hanno causato alla storia europea.

Quale sia il colore della loro pelle, e nonostante l’inno di Mameli e Novaro, l’Italia non ha figli e certamente non si chiamano Balilla.

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