IL CLAN DEGLI INGLESI

Dennis, Ecclestone e Mosley non si amano ma quest’anno si sono coalizzati per far vincere Hamilton

nostro inviato

a San Paolo
Ron è la contraddizione fatta persona. Ron ama il nero, le tinte scure, appena giunge in circuito fa tinteggiare black e grigio ogni millimetro del box perché così è meglio, è più elegante. Ron ama il nero e intanto ha sposato una splendida californiana bionda, alta alta, gentile gentile, madre delle sue tre figlie. Si chiama Louise e, nonostante i milioni del marito, è diventata un’apprezzata scrittrice di favole per bambini. Di certo non gliele ispira il lugubre Ron, uomo che ha indubbi meriti nell’aver creato dal nulla una delle squadre più vincenti di sempre, e uomo che gode della dichiarata antipatia del presidente Fia, Max Mosley, e della neutrale stima di Bernie Ecclestone. Tre uomini, quest’ultimi, che benché non proprio vicini, per onor di patria, quest’anno, si sono trovati a sorreggere fin troppo le sorti e le imprese di pupillo Hamilton, diventando un vero clan. Di stampo più siciliano che scozzese.
Ma si diceva di Ron. Prima della spy story era conosciuto soprattutto per tre cosette. La prima: non dava mai ordini di scuderia ai suoi piloti, per cui spettacolo ad oltranza e casini in dosi industriali. Ma il pubblico lo ha sempre un po’ amato per questa sua incoscienza: senza di lui, Alonso ora sarebbe campione del mondo e la Ferrari non sarebbe qui a festeggiare.
L’altra cosetta che caratterizza l’uomo nero del mondiale è la sua atavica avversione per i piloti italiani e gli italiani in genere. Nonostante con il proprio yacht ami navigare al largo delle isole Eolie, yacht nero e grigio, facile notarlo, non ha mai dato spazio ai nostri ragazzi. Al massimo li ha elevati al rango di collaudatori (Emanuele Pirro); di farli però correre in gara, neppure a parlarne. «Dopo l’esperienza avuta nel 1980 con Andrea De Cesaris – ricorda – io non voglio più sfasciacarrozze italiani in squadra».
La terza cosetta, riguarda il cosiddetto «Ron speaking». Oltre Manica, hanno coniato questo neologismo per descrivere chi, per esprimere concetti semplicissimi, usa termini e imposta frasi in modo assolutamente e inutilmente complicato. La definizione che si trova su tutti i libri di F1 dice proprio questo. Dennis non l’ha mai gradita, però la spy story, vicenda complicata di per sé, gli ha permesso di esaltarsi: poche volte si è capito qualcosa e molto spesso sembrava Alice nel Paese delle meraviglie che nulla sapeva. Ma forse era solo una sensazione causata dal non aver decriptato il suo linguaggio. Anche ieri, ha prima fatto sapere «di avercela con i siti che rilanciano e fomentano i problemi fra lui e Alonso» e poi ha spiegato «che sono i nostri tifosi a volere che si faccia ricorso contro la Ferrari».
Qualcuno ritiene che il «Ron speaking» sia figlio della sua voglia di affrancarsi dalle umili origini. Dennis, classe 1947, è nato a Woking, paese di campagna vicino a Londra. A 16 anni lascia la scuola e va a lavorare come apprendista meccanico per il Thomson and Taylor garage di Weybridge. La prima svolta un paio di anni dopo, quando Dennis viene trasferito alla Cooper company, celebre negli anni ’60 per le monoposto di F1. Ron ha 19 anni quando entra per la prima volta in un paddock di F1 e non ne ha 30 quando è da tutti considerato il capo meccanico più abile. Negli anni ’60 lavora per Rindt e Brabham. Del ’71 la seconda svolta; con un suo compagno meccanico, Neil Trundle, decide di fondare un proprio team: la Rondel Racing. A questo ne seguiranno altri, fino al Project Four vincente, a fine anni ’70, in F2 e F3. È il 1980 quando la Marlboro, delusa per le scarse prestazioni della McLaren di cui è sponsor principale, lo invita a prendere le redini del team inglese. Come sempre, scalerà la squadra di cui ora è proprietario e presidente assieme all’altro socio, il miliardario di origini libanesi, Mansour Ojjeh (il 40% del team è in mano alla Mercedes). Il resto sono le scelte azzeccate degli anni ’80, il telaio in carbonio, l’assunzione di piloti del calibro di Lauda, Prost, Senna, Hakkinen e, ora, la scoperta di Hamilton.


Se qualcuno conoscesse il complicato «Ron speaking», dovrebbe prenderlo da parte e sussurrargli: «Con tutto quel che avevi fatto in passato, era proprio il caso di spiare il dossier Ferrari?». Ma la risposta sarebbe, purtroppo, incomprensibile.

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