«Clementina rapita per caso, l’obiettivo era una canadese»

Parla il custode della casa dove è avvenuto l’agguato: «Julie vive qui, è riuscita a entrare, la Cantoni è rimasta in auto»

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Fausto Biloslavo

da Kabul

«Siamo state assalite da uomini armati. Adesso verranno a prendere anche me. Non aprire il cancello a nessuno» ha urlato al giovane guardiano, piangendo e tremando, Julie Lafreniere. La volontaria canadese scampata per miracolo al rapimento, mentre Clementina Cantoni finiva nella mani dei tagliagole afghani. Tutto fa pensare che il bersaglio dei sequestratori fosse Julie e solo per caso è stata presa in ostaggio la giovane milanese. «Poco dopo le 8 e trenta di sera ho sentito Julie che rientrava di corsa, disperata, in lacrime. Urlava che erano state assalite e di sprangare il cancello. La prima cosa che ho fatto è tentare di proteggerla, nasconderla», racconta a il Giornale Aminullah, il giovane guardiano dell’appartamento della volontaria canadese. Clementina l’aveva appena accompagnata a casa nella strada numero uno nella zona di Qalley Mosa, attaccato al quartiere di Shahr e Naw, frequentato da molti occidentali, nel pieno centro di Kabul.
Quella sera di lunedì 16 maggio, la Toyota Corolla bianca, guidata da un autista afghano di Care, l’organizzazione umanitaria per cui lavora Clementina, si era appena fermata davanti al cancello grigio con le maniglie in ottone della casa di Julie. La canadese, seduta dietro, è scesa e mentre stava aprendo il cancello è scattato l’agguato di alcuni uomini armati, che avevano seguito la Toyota. Conoscevano la zona e puntavano sulla canadese, che però è riuscita a dileguarsi chiudendosi il cancello alle spalle. Clementina stava seduta davanti, accanto all’autista, e non ha fatto a tempo a fuggire. I sequestratori hanno rotto il finestrino con il calcio del kalashnikov tirandola fuori a forza. «Julie urlava che sarebbero venuti a prendere anche lei» racconta Aminullah. «Due minuti dopo ho sentito qualcuno che batteva insistentemente sul cancello per farsi aprire. Sono andato a vedere dallo spioncino e ho riconosciuto l’autista di Care. Allora l’ho fatto entrare» racconta il giovane guardiano di etnia hazara. «L’autista era impaurito, agitato, ma non ferito e mi ha chiesto di esaminare con lui la macchina. Clementina non c’era più, la portiera anteriore destra era chiusa e i vetri del finestrino sparsi in mezzo alla strada» ricorda Aminullah. Se ne trovano ancora, fra la polvere sul ciglio di questo vicolo, che a quell’ora era immerso nel buio.
Di fronte c’è una villetta disabitata, il negozio più avanti era già chiuso e in giro non c’era anima viva. I rapitori hanno scelto bene il posto per l’agguato, poco distante dal cimitero britannico, a un passo dal centro, ma defilato rispetto alle arterie principali. Forse pedinavano da tempo la canadese e quasi sicuramente non puntavano a rapire l’italiana, come lo stesso Timor Shah, l’autoproclamato capo dei rapitori, aveva ammesso giorni fa in una telefonata con il Giornale. Sono accompagnato dai soldati italiani di stanza a Kabul, che si erano precipitati sul luogo del sequestro non appena saputa la notizia. «Stella da Astrid. Portarsi su punto coordinate... per controllare la zona e individuare veicolo sospetto a causa di un probabile rapimento di stranieri» è stato il primo allarme radio lanciato dalla sala operativa italiana del “Fortino”, com’è battezzato il comando della missione internazionale (Isaf) a Kabul. «Eravamo appena usciti in pattuglia e dopo aver allertato il mitragliere in torretta ci abbiamo messo un attimo a percorrere i due chilometri in linea d’aria che ci separavano dal luogo dell’agguato» racconta il tenente Manuele Napoli, 26 anni, originario di Salerno, artigliere dell’8° reggimento Pasubio. «Siamo addestrati per queste emergenze, ma viverle è un’altra cosa - spiega l’ufficiale con la faccia da bravo ragazzo -. Quando ci hanno comunicato che avevano sequestrato un’italiana fra i miei uomini è sceso un glaciale silenzio. Non ci potevamo credere».
Giunti sul posto gli italiani hanno trovato la polizia afghana, che stava organizzando i primi posti di blocco. A Kabul sono impegnati circa 500 soldati italiani, che dal giorno del rapimento hanno intensificato del 25% i pattugliamenti. Fra le 22 donne del contingente, Katya Verbena, 27 anni, di Caserta, fa lo stesso servizio degli uomini.

«Ero di guardia quando si è sparsa la notizia del sequestro - racconta il caporal maggiore dai penetranti occhi verdi -. Sul primo momento ho provato stupore, poi rabbia, perché era una donna. Poteva capitare a una di noi, ma le garantisco che prima di farmi prendere sparerei fino all’ultimo colpo del mio caricatore».

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