«Clinton peggio di Bush nello scenario balcanico»

In un libro di Miodrag Lekic, ex ambasciatore di Belgrado a Roma, i difficili giorni dell’attacco Nato al suo Paese

Marcello Foa

Era il 1999, l’Italia partecipava all’offensiva della Nato in Kosovo; il primo ministro era Massimo D’Alema, alla guida di una coalizione eterogenea che raggruppava centristi filoatlantici e pacifisti irriducibili. Miodrag Lekic era l’ambasciatore della Jugoslavia a Roma; la voce del nemico Slobodan Milosevic in una situazione paradossale o, come la definisce lui oggi, «postmoderna»: non era stato richiamato nonostante il suo Paese fosse in guerra con il nostro. Oggi siamo nel 2006, l’Italia è sempre al centro delle grandi questioni strategico-militari in Irak e in Afghanistan; Massimo D’Alema è il ministro degli Esteri di un governo in cui il peso dei pacifisti è addirittura aumentato. Lekic vive ancora a Roma, non più come diplomatico, ma come docente universitario di relazioni internazionali. Un osservatore qualificato e brillante, che nel suo avvincente diario La mia guerra alla guerra (Guerini editore), ripercorre il conflitto di sette anni fa, esaminandone le conseguenze fino ai giorni nostri, come spiega in questa intervista.
Professor Lekic, lei è montenegrino e il Montenegro si è appena separato dalla Serbia. C’è chi teme che ciò possa provocare un effetto domino. Condivide?
«I montenegrini avevano diritto di esprimersi sul loro futuro, come gli altri Paesi dell’ex Jugoslavia. Non bisogna dimenticare che il Congresso di Berlino nel 1878 aveva già riconosciuto lo Stato del Montenegro. Per molti di noi non sarà facile abituarsi all’idea che Belgrado sia diventata la capitale di un Paese straniero, ma non credo che la decisione possa destabilizzare i Balcani».
Perché è così fiducioso?
«Perché negli anni Novanta i politici avevano incoraggiato il processo di frammentazione della Jugoslavia, illudendo la popolazione, che infatti dopo si trovò ad affrontare molti problemi inaspettati. Io resto convinto che la suddivisione non fosse indispensabile, tuttavia l’assetto geopolitico nella regione oggi è stabile».
Con un’eccezione: il Kosovo...
«Certo. E resta un rebus. Fino a oggi il governo di Belgrado negava l’indipendenza, avvalendosi della Risoluzione 1244 dell’Onu che riconosceva il Kosovo come parte integrante della Repubblica federale jugoslava. Ma dopo il referendum montenegrino la Jugoslavia non esiste più. Ora la situazione in teoria potrebbe sbloccarsi».
L’Occidente a inizio anno sembrava intenzionato a chiudere la questione Kosovo, ora invece nessuno ne parla più. Perché?
«Ci sono ancora troppi aspetti irrisolti e troppi protagonisti. La partita diplomatica si gioca su più livelli: c’è il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, l’Unione europea, la Nato, l’Osce. Difficile trovare una soluzione e allora si tende a rinviare».
Eppure tutto dipenderà dagli Usa, anche lei non ha fiducia nell’Amministrazione Bush?
«L’esperienza in Kosovo dimostra che l’unilateralismo di Washington non è cominciato con Bush, ma prima, con Clinton. Io ho l’impressione che l’attuale governo Usa abbia un approccio più equilibrato nei Balcani. Cerca di correggere gli errori, non vede più tutto solo in bianco e nero, né ricorre ai trucchi usati durante i negoziati di Rambouillet. È più realista»
E l’Italia dell’Unione con un governo così eterogeneo che ruolo può giocare sulla scena internazionale ?
«Effettivamente la coalizione odierna presenta molte somiglianze con quella di allora, ma è presto per trarre conclusioni. Bisogna vedere come Prodi e D’Alema riusciranno ad ammortizzare le tensioni, con una variabile in più: Bertinotti, che nel ’99 era fuori del governo, mentre oggi è dentro».


Milosevic è morto, oggi come lo giudica?
«Ha avuto un ruolo primario nelle vicende jugoslave degli anni Novanta, ma resto convinto che non fosse l’unico responsabile. Quella dei Balcani è una tragedia con tanti perché».

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