nostro inviato a Venezia
Se George Clooney non esistesse, ce lo dovremmo inventare, impresa disperata ma non seria in un Paese di inveterati autolesionisti. Dove lo troviamo un altro sponsor così entusiasta e così seducente, uno che da noi s'è comprato casa, ci riempie di complimenti, dice che gli abbiamo insegnato a vivere, sta persino imparando l'italiano e insomma trova tutto «magnifico», pronunciato con la g dura, un sorriso e il baffo malandrino?
È sbarcato in Laguna come un re democratico in visita alle sue terre più amate. Che sia l'unico monarca che Hollywood sia stato in grado di produrre dai tempi di Clark Gable, di cui condivide una fisicità sorniona, è un dato di fatto. Quanto all'aggettivo che ne regge e corregge la corona, è fatto di impegno senza isterie né messianismi. Qui a Venezia è interprete di un film che si intitola Michael Clayton, e siccome si parla di grandi gruppi industriali corrotti, c'è chi gli imputa di fare la pubblicità per una multinazionale chiacchierata. Lui ascolta, dice che sì, la fa e grazie a quella fa anche altre cose, definisce comunque «irritante» la domanda e chiude lì. È solo un attore, insomma, e certo un attore che pensa, ma non è l'arcangelo Gabriele sceso sulla terra per rimetterla in riga...
Al successo in fondo Clooney è arrivato tardi, superati i trent'anni. Questo lo ha messo al riparo dagli eccessi e vaccinato contro le tentazioni. Negli anni Ottanta la sua era una faccia da anni Trenta e Quaranta, qualcosa di démodé nella sua unicità. Nel tempo è divenuta il suo marchio di fabbrica e la sua fortuna. I tre quarti delle bellezze hollywoodiane maschili sono interscambiabili, la sua no. Aggiungeteci una buona intelligenza e una buona cultura, una famiglia wasp, un padre giornalista, una madre ex modella, ambedue con forti passioni civiche, una nonna cantante, e avrete il ritratto di chi fa le cose che ritiene giuste senza prendersi troppo sul serio. Come attore non si fa illusioni sulla sacralità del proprio mestiere. «Ha poco a che spartire con l'arte. Nella maggioranza dei casi l'integrità artistica è quasi impossibile. Si recita come vogliono i produttori, il regista, gli sceneggiatori». E anche sul cinema ha uno sguardo disincantato. «Mi interessa fare film che abbiano un significato, ma allo stesso tempo siano un intrattenimento. Predicare attraverso una pellicola è stupido e inutile. E comunque il cinema non fornisce delle risposte, ma tutt'al più delle domande».
Il segreto dell'«impegno» di Clooney è forse proprio questo, il dissenso espresso con personaggi discreti. Gli fa da contraltare un glamour più privato che mondano, barbecue con gli amici rigorosamente al sabato, lunghe corse in moto, una villa di sogno, sì, ma sul lago di Como e non a Ibiza («l'avevo presa solo per fare un investimento, ed è la cosa più intelligente che abbia fatto in vita mia»), una sensibilità per le campagne umanitarie che non si limita a un ruolo di testimonial o all'adozione in serie... Sul Darfour, per fare un esempio, ha girato trenta ore di pellicola insieme con il padre, le ha montate e ci ha ricavato il documentario Journey to Darfour.
È vivendo così che oggi Clooney è più potente di un produttore qualsiasi. Con Syriana, di cui era anche produttore esecutivo, ha fatto il film più politico uscito da Hollywood dai tempi del Vietnam, ma il ritratto che ne esce è quello di un mondo dove il tradimento è così legato al business internazionale che la corruzione diventa la norma e passa inosservata, e il potere geopolitico, in realtà è decentrato e quindi ovunque. Quanto a Good Night, and Good luck, di cui era anche regista, alla fine della celebrazione dell'impegno e della solidarietà fra colleghi il protagonista Edward R. Murrow si ritroverà messo da parte, allo stesso modo dell'avversario che aveva sconfitto, ovvero Joseph McCarty.
Un metro e ottanta per 75 chili, asciutto e in gran forma, nemmeno un sex symbol come lui può sottrarsi a pettegolezzi più o meno interessati.
Stenio Solinas
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