Cultura e Spettacoli

Clown e acrobati, la magia del Cirque

Roberta Pasero

da Milano

E se avesse ragione il buffone del re, quello che vaga assorto pavoneggiandosi con il suo scettro di luce? E se davvero tutte le illusioni fossero possibili sotto il Grand Chapiteau, persino che d’improvviso i vecchi tornassero bambini e che i sovrani diventassero giullari di corte? Possibile, impossibile, non fa differenza al Cirque du Soleil, qui dove l’immaginazione si arrampica su un filo invisibile, qui dove i sogni roteano instancabili attorno ad una fune aerea che sfuma nel cielo, qui dove l’emozione ondeggia nell’aria metafisica, gioca d’azzardo con la forza di gravità e trasforma i pensieri anche più cupi in un caleidoscopio di leggiadri colori.
Sono tornati: trapezisti vestiti di luce, saltimbanchi liberi di volare, clown con l’animo neonato, giocolieri che armeggiano con la fantasia, contorsionisti che si annodano e si srotolano nel vuoto. Ed è stato subito trionfo l’altra sera per la prima nazionale di Alegría sotto il tendone bianco dalle forme disneyane che svetta nella notte ad Assago, alle porte di Milano (fino al 26 marzo, poi dal 27 aprile si ricomincia a Roma): duemilacinquecento spettatori ipnotizzati da acrobatiche emozioni, da musica variopinta, da atmosfere iridescenti, da scenografie monumentali, da un assortito parterre similvip (Dj Francesco, Parietti, Bettarini, Stefanenko, La Russa, Brachino, Costantino, Santarelli e mille altri), soprattutto da applausi infiniti. Ancora una volta, dopo dieci anni di repliche e otto milioni di spettatori catturati in cinquanta città del mondo.
Che sia dunque subito Alegría, alla maniera spagnola, e dunque «giubilo, gaiezza». Una gioia gridata, sognata, vagheggiata attraverso ritmici geroglifici di una lingua universale, quella del Cirque du Soleil, la compagnia canadese che da ventidue anni va alla conquista del mondo provando a sedurlo con la magia e l’incanto di numeri impossibili da descrivere, che sia la danza tribale dei coltelli di fuoco, al ritmo di tamburi congolesi, o l’incredibile saliscendi di angeli su barre elastiche, che siano trapezi sincronizzati, uomini volanti o tempeste di neve e di carta, come quella che avvolge la platea in un vortice di vento e di stupore.
Spiega Franco Dragone, il regista di origini italiane di Alegría: «È un omaggio alle famiglie circensi che fino a poco tempo fa attraversavano in un interminabile viaggio itinerante tutta l’Europa: i personaggi, i costumi, i numeri evocano i tempi in cui la fantasia era qualcosa di reale e la magia faceva parte integrante della vita. Un tempo in cui ogni buffone aveva il suo re. Un tempo in cui l’universo delle persone era costituito dalla famiglia, dal villaggio, oltre i quali vi era l’ignoto, immenso ed oscuro. Oggi l’universo si è dilatato, ma contemporaneamente è aumentato l’isolamento dell’uomo. Noi non pretendiamo di spostare indietro le lancette dell’orologio, non possiamo cambiare il mondo, ma possiamo riscoprire la magica fiducia nella tenerezza umana». Non c’è da stupirsi allora se in Alegría la clownerie ha il sopravvento sull’acrobatismo e rende lo spettacolo meno audace di Saltimbanco che due anni fa fece conoscere in Italia il Cirque du Soleil. Vincono un po’ troppo spesso i nasi finti, i fumi che escono dal cilindro, le imitazioni dei rumori del mondo, i clown, vincono sugli effetti speciali, soprattutto sul sincronismo ed il virtuosismo estremo. Ma alla fine il risultato è, come sempre, tante cose in una, un po’ disegno caricaturale di Grotsz, un po’ guazzabuglio magico di Fellini, un po’ straniamento esistenziale alla Beckett, è anche molto animo barocco.

Secondo la definizione che di barocco dava Ungaretti: «Il tentativo di riempire il vuoto per avere l’illusione che la vita non finisca mai».

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