Ogni grande scrittore ha avuto la sua folgorazione sulla via di Damasco. Mario Pomilio fu trapassato dalla folgore nel 1968, quando si imbattè «nella traduzione dei quattro Vangeli curata per Neri Pozza da Lisi, Alvaro, Valeri e Bontempelli». Mario Pomilio, nato ad Orsagna, in Abruzzo, il 14 gennaio del 1921, era un bravo cristo, lo dicono tutti, era «un uomo estremamente dolce» (così la figlia), «sensibilissimo, umile, grato e generoso con gli amici» (Cesare Cavalleri). Letterato di platino - aveva studiato alla Normale di Pisa - a quell'epoca era uno scrittore sulla via della beatificazione nelle antologie scolastiche. Un epigono, insomma. Amico intimo di Michele Prisco e di Domenico Rea, con costoro fonda, a Napoli, Le ragioni narrative : la rivista esce nel 1960, proponendo «una narrativa che abbia l'uomo, i suoi problemi, il suo essere morale e sociale a proprio centro d'interesse». Questo sociologismo azzoppa un po' i primi romanzi di Pomilio da cui tuttavia egli ricava gli elogi del club letterario del tempo e diversi allori (con La compromissione , 1965, si porta a casa il Campiello). Papà socialista integrale, mamma cattolica convinta, Pomilio passa dai socialisti ai democristiani, sedotto sulla via del Concilio Vaticano II. Fu pure deputato al Parlamento europeo, in lista per la Democrazia cristiana, come indipendente. Se ci fermassimo al Sessantotto, Pomilio sarebbe l'ennesimo cattocomunista con il vizio della penna, una sfiziosa nota sul margine di una letteratura che ha poco da dire, ormai. Poi arrivò la meteora, l'Ufo, la stella cometa.
Quando fu pubblicato Il quinto evangelio , nel febbraio del 1975, per la casa editrice Rusconi, al primitivo sconcerto si sostituì la certezza. «Nel libro di Pomilio ci sono il profumo e la presenza della Grazia, la letteratura è visitata dalla teologia come nei veri, grandi capolavori che l'umanità ha scritto nel corso dei secoli», scrisse Cesare Cavalleri su Avvenire , a caldo. Fu una folgorazione, appunto. Fu uno di quei rarissimi «momenti folli» che attraversano la vita, ricorda Pomilio, cercando di ragionare intorno all'irragionevole nella Preistoria d'un romanzo .
Allora, nel 1968, con i Vangeli pubblicati da Neri Pozza tra le mani, a Pomilio viene «l'idea del quinto Vangelo, del Libro dei Libri o dell'Apocrifo degli Apocrifi che prolunga e reinvera perpetuamente il messaggio, l'idea del libro perpetuamente inseguito e perpetuamente nascosto il quale soggiace alle Scritture già note e di continuo ne modifica e ne amplifica il testo». Il quinto evangelio confonde: non si è mai visto un libro scritto così. Per non sbagliare, ornano il romanzo con il Premio Napoli, lo traducono qua e là, poi lo mettono in ghiacciaia fino al 1990, quando Mondadori lo riproduce negli Oscar. Pomilio morirà pochi mesi dopo, in quello stesso anno. Nell'edizione Bompiani del 2000 - che passa in libreria come un fulmine - Riccardo Scrivano deve tirare in ballo Boccaccio, il Manzoni, Italo Calvino, perfino Dante, per mettere la museruola alla muscolare strategia narrativa di Pomilio. Gabriele Frasca, nell'impeccabile edizione del romanzo da poco pubblicata da L'Orma (pagg. 496, euro 26), 25 anni dopo la morte di Pomilio, girovaga per quasi quaranta pagine per dirci, finalmente, che Il quinto evangelio è «uno degli ultimi grandi romanzi italiani».
Gabriele Frasca parla, a proposito di Pomilio, di «fantafilologia». Riccardo Bacchelli, disorientato, scrisse a Pomilio, «lei inventa, finge una documentazione con tanta perizia ed eccellenza storica e filologica, che ne nasce una perplessità, in quanto si è indotti a persuadersi che siano documenti reali e storici e filologici». Pomilio sa che l'unico modo per descrivere la realtà è superarla. Perciò costruisce un conturbante romanzo fondato su documenti fittizi. La trama è semplice: uno studioso americano, agnostico per noia, arruolato durante la Seconda guerra, si rifugia in una canonica, a Colonia. Lì, tra le carte del parroco scomparso, trova le prime tracce del fatidico «evangelo andato perduto», contenente la «promessa d'un supplemento di rivelazione». L'americano passa il resto della vita, aiutato da alcuni studenti, a cercare questo vangelo assoluto, in grado di riassumere e incenerire tutti gli altri. Il romanzo è costruito da una immensa, dolente lettera di Peter Bergin («le parlo dall'orlo del fosso») a un misterioso «M. G.», alto prelato, «segretario della Pontificia Commissione Biblica» di Roma, al quale l'americano allega la mole di documenti che attesterebbero la reale presenza del Quinto evangelio. Con scelta mistica e azzardo narrativo, Pomilio ci fa viaggiare per oltre 400 pagine, sbordando tra i generi (il romanzo si chiude con l'abissale testo teatrale Il quinto evangelista ), negandoci l'approdo: del Quinto evangelio non leggiamo che scarsi brandelli, poco più che spunti (ispirati senza dubbio, come ha dimostrato Wanda Santini scavando nel fondo Pomilio all'università di Pavia, dall'apocrifo Vangelo di Tommaso); né ci è concesso leggere la lettera di risposta - forse risolutiva - del Reverendo, dacché, ci fa sapere la sbrigativa assistente Anne Lee, «il professor Bergin non ha fatto in tempo a leggerla», nel frattempo è morto. Pomilio, così, ci frega mostrandoci che la ricerca del tesoro è meglio del tesoro, che in un capolavoro il non detto, l'indicibile, è più importante di ciò che è scritto. In modo vertiginoso, tuttavia, il lettore, diventato esegeta di testi esotici ed esoterici, passa per cronache medioevali e iscrizioni bizantine, per poemi fiammighi del XVI secolo e dotte dissertazioni del secolo scorso, tutte fonti «immaginarie» o «adottate con la massima libertà», come se Pomilio fosse un Borges al cubo.
Mario Pomilio toccò la cima della sua gloria con Il Natale del 1833 : per una fortuita casualità l'opera più bella, pubblicata da Rusconi nel 1983, ottiene il premio più importante, lo Strega. Pomilio entra nelle viscere del monumentale Alessandro Manzoni, scolpendo un busto titanico, mostrandoci «la fragilità mescolata alla bellezza, la squisitezza dei comportamenti mescolata all'inaccessibilità», estraendo il cuore cupo, volubile, eccellente del fondatore del romanzo italiano. Se ne esce innamorati del Manzoni, si vorrebbe indagare nell'epistolario manzoniano, compulsando il fatidico e incompiuto Giobbe: fatica inutile, perché nella postilla finale Pomilio ci avvisa che ogni documento «è immaginario». Grazie alla cura dei figli, Annalisa e Tommaso, l'opera di Pomilio sta tornando in circolo: Il Natale del 1833 sarà ripubblicato da Bompiani l'anno prossimo, gli Scritti cristiani sono usciti per Vita e Pensiero (2014), nei prossimi mesi Aragno stamperà una collezione di Saggi . Una resurrezione.
È un libro strepitoso. Parla di tasse e imposte con un linguaggio semplice. Lui è Pascal Salin, professore di economia, francese, già presidente della Mont Pelerin Society, la ridotta del liberalismo mondiale. Il libro che consigliamo per la sua straordinaria attualità si chiama La tirannia fiscale ed è edito dalla piccola, agguerrita e laicamente santa casa editrice Liberilibri di Macerata. Quando si dice che un libro è di straordinaria attualità nel 90 per cento dei casi si tratta di una di quelle frasi fatte buttate lì dal recensore per stuzzicare l'interesse del lettore.
Il libro scritto esattamente trent'anni fa e per di più da un francese cosa volete che c'entri con la politica fiscale di oggi? E per la verità disseminati nel testo ci sono esempi (utili per capire bene il pensiero di Salin) espressi in franchi, quasi a raccontare un altro mondo. Eppure, e se volete in ciò vi può essere un filo di sconforto, i pregiudizi verso la tassazione restano oggi i medesimi di ieri. Proprio in queste settimane è stata rilanciata in Italia, da Matteo Salvini e Armando Siri, la proposta di una flat tax al 15 per cento. Nel disinteresse di tutti, e nello sfottò di quei pochi che la prendono in considerazione solo per ridicolizzare chi la propone. Scrive Salin: «Questo libro scombussolerà probabilmente delle abitudini di pensiero e coloro che saranno disturbati nella loro routine intellettuale o nei loro interessi lo vedranno forse come estremista. Ma estremisti sono coloro che mutilano l'attività umana tramite la spoliazione fiscale e chi li segue». Non è estremista, è bene tenerlo sempre a mente, chi propone rivoluzioni fiscali che riducano l'impatto delle tasse; lo è chi fa le coccole alla tirannia a cui oggi siamo sottoposti. Una delle tirannie che Salin magistralmente smonta (e non tutti i liberali sono d'accordo con lui) è sulla progressività delle imposte sul reddito a cui dedica un capitolo ad hoc . Le due ragioni per cui i teorici le giustificano sono entrambe false. La prima nasce dall'utilità marginale decrescente che vuole «uguagliare il sacrificio di imposta». Insomma se lo Stato requisisce in modo più che proporzionale a chi ha di più, non fa del male perché il dolore decresce al crescere del reddito. E la seconda giustificazione è che «lo Stato deve farsi carico di una funzione di redistribuzione e solidarietà».
Oggi questi due principi a cui si ispira anche il nostro sistema fiscale sembrano scritti nella pietra del buon senso. Salin li smonta con rigore logico. Non vi vogliamo togliere il gusto di scoprire come. È il secondo capitolo del libro.
Vi anticipiamo solo che la conclusione dell'economista si basa su una critica durissima della visione meccanicistica della società. La brutta eredità del materialismo storico e del determinismo di origine marxiana. Ma Salin lo scrive in modo più semplice.
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