Cronache

Il codice sportivo smentisce la Disciplinare

Il codice sportivo smentisce la Disciplinare

Diego Pistacchi

Per quanto di competenza. Una frasetta che sembra innocua e che invece mette in crisi la Federcalcio. È quella dicitura un po’ burocratica che spiega la «presenza del procuratore federale Ermidio Frascione e del sostituto procuratore Stefano Palazzi» alla riunione della Commissione Disciplinare che il 27 luglio condannò il Genoa alla serie C (con tre punti di penalizzazione). La presenza dell’accusa alla riunione decisiva per il giudizio è roba da brividi in qualsiasi ordinamento giuridico. Ma non ci si potrebbe stupire se in nome della tanto sbandierata autonomia dello sport, la Figc avesse previsto anche questa possibilità tra le sue regole.
Invece no. Quanto fatto dalla Disciplinare non è consentito neppure dalle carte federali. Anzi, il codice di giustizia sportivo è categorico nel prevedere cosa può essere fatto e chi può partecipare alle riunioni. Il titolo quarto del codice, dedicato agli «organi di giustizia sportiva», recita così all’articolo 25, comma 8: «Le commissioni disciplinari giudicano con la partecipazione del Presidente e di due componenti». E subito sotto, al comma 9: «Alle riunioni delle Commissioni disciplinari partecipa, a titolo consultivo in materia tecnico-agonistica, un rappresentante dell’Aia (l’associazione arbitri, ndr) designato dalla stessa». E quel giorno, come da comunicati, il rappresentante dell’Aia era presente. Non altrettanto autorizzati dal codice a partecipare alla sentenza erano invece i due accusatori del Genoa. E questo punto è uno di quelli messi al centro dell’inchiesta del procuratore capo Francesco Lalla per l’ipotesi di falso ideologico in atto pubblico.
Ma il codice di giustizia sportiva non mette in crisi la Disciplinare solo dal punto di vista formale. Anche nella sostanza c’è materiale sufficiente a valutare l’operato dei giudici. Il problema è quello della posizione del Torino nella vicenda. La lunga attesa del primo verdetto sembrava potesse essere legata alla decisione dei giudici di rimettere tutte le carte all’ufficio indagini e fare ulteriori accertamenti. Non fu così. Ma il codice lo avrebbe imposto. Infatti la Disciplinare non ha applicato il comma 10 dell’articolo 37: «Se emergono altre responsabilità o fatti nuovi, o se risulta che il fatto è diverso, la commissione rimette senza indugio gli atti all’ufficio indagini sospendendo, se necessario, il giudizio in corso». E la Disciplinare nel suo verdetto ha parlato di «rapporti effettivamente intercorsi tra Torino e Venezia». Una contraddizione.

Da mettere nel fascicolo con le altre.

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