Roma - No, nessuna intromissione presidenziale, niente pressioni per far togliere dai banchi il sole delle Alpi. «Io non ho fatto nulla», dice Giorgio Napolitano da Parigi, è stata la Gelmini a far cancellare gli emblemi leghisti. Il Quirinale prova a smarcarsi: il caso della scuola di Adro è di quelli scottanti e il capo dello Stato adesso vuole evidentemente tenere le debite distanze. Anche se in serata attacca «i faziosi, volgari e provinciali che criticano l’unità d’Italia». Ma su Adro, precisa, «non ho fatto nessun intervento, sarebbe stato tardivo ieri o l’altro ieri. Io ho soltanto preso atto che c’erano state forti sollecitazioni che venivano dalle opposizioni, dalla stampa, dall’opinione pubblica. Ho avuto fiducia che intervenisse, come doveva, il ministro e ho preso atto che è stata chiesta la rimozione di quei simboli».
Marcia indietro? Corto circuito mediatico? Errore di qualche ufficio del Colle? Il giallo nasce dalla lettera spedita dal segretario generale Donato Marra ai genitori di Adro, in cui si legge che il capo dello Stato «ha apprezzato il passo compiuto dal ministro dell’Istruzione invitando il sindaco a rimuovere quelle esibizioni» e «ha ribadito che nessun simbolo identificabile con una parte politica possa sostituire in sedi pubbliche quelli della nazione, né questi possono essere oggetto di provocazioni e di sfide». Dunque una «presa d’atto» e non «un intervento» diretto. Sembrano sfumature, resta però da capire perché Napolitano abbia fortemente voluto fare questa puntualizzazione. Solo per chiarire che il merito non è suo ma della Gelmini? O per correggere i titoli dei giornali?
Probabilmente la spiegazione è un’altra e sta nel fatto che il presidente non ha gradito il momento e il modo in cui è stato reso pubblico il suo pensiero sulla scuola di Adro. La situazione pubblica ribolle, in Parlamento c’è un premier alla caccia dei voti di fiducia per proseguire la sua azione di governo, la crisi è ancora possibile: inutile e dannoso, dal punto di vista del Quirinale, mettere altra carne al fuoco riaccendendo la polemica con la Lega.
Una conferma indiretta degli umori presidenziali arriva poi dal commento a caldo su quanto sta accadendo a Montecitorio: «Se il governo va avanti - dice Napolitano - è meglio dal punto di vista del dovere di garantire la stabilità delle istituzioni e la continuità. Ora si tratta di verificare la saldezza della maggioranza non solo nel voto ma anche nello sviluppo successivo dei rapporti politici e parlamentari».
Eppure è proprio il capo dello Stato in serata a riaccendere la miccia, pronunciando all’École Normale un discorso di duro taglio antileghista. Faziosità, volgarità, sorprendente provincialismo, sterile conflittualità, irragionevolezza, contestazioni mistificatorie, uso spregiudicato della storia piegata alle necessità della politica spicciola, fino alle rumorose e irragionevoli grida di secessione. C’è tutto questo nelle parole di un Napolitano particolarmente spazientito con chi mostra freddezza nei confronti dell’unità nazionale e delle celebrazioni per il 150esimo anniversario,
Il Colle è preoccupato «non per i timori di un’effettiva rottura» dell’Italia, ma perché «si vanno seminando motivi di sterile conflittualità e di complessivo disorientamento in un Paese che invece ha bisogno di rafforzare la fiducia in se stesso». Spargendo «incertezza e dubbio» si colpirebbe «alle radici la sana pianta di una nazione che, divisa e incerta, piomberebbe nella regressione».
E il presidente conclude ricordando il suo ruolo: «I costituenti non esclusero a priori l’ipotesi presidenzialista, ma un capo dello Stato eletto dal Parlamento e non dai cittadini è titolare di importanti prerogative che esercita con imparzialità senza subirne incrinature ma rispettando i limiti e ricorrendo ai mezzi della moral suasion e del richiamo ai valori costituenti dell’identità nazionale».
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