Collins, tredici modi per fallire con genialità

Dall’uomo che volle dipingere tutto il Mississippi in una sola tela a quello che inventò la Lingua Musicale: ascesa e caduta delle strane idee

Collins, tredici modi per fallire con genialità

In quella monumentale radiografia dell’animo umano che è L’uomo senza qualità, Robert Musil scrive: «Amore della verità è in fondo una delle più assurde combinazioni di parole. Perché la verità si può venerare in Dio sa quante maniere, ma amarla, no, non si deve. Incomincerebbe a fluttuare, a dissolversi». Più modestamente, ma altrettanto a proposito, Paul Collins lascia cadere con apparente noncuranza una piccola frase, nel suo La follia di Banvard (Adelphi, pagg. 333, euro 19,50, traduzione di M. Lunari, da oggi in libreria), in cui è concentrato tutto il senso del libro: «Non è la storia a cambiare, bensì quello che desideriamo ricordare di essa». La Verità e la Storia devono andare a braccetto come buone amiche con passo sincronizzato, se vogliono meritarsi l’onore della maiuscola. Ma sappiamo tutti che così non è.
Per ricordarcelo, Collins ci presenta tredici casi esemplari di persone che, incautamente innamoratesi della loro Verità, sono state fatalmente abbandonate dalla Storia. Li potremmo chiamare genî del fallimento. Hanno vissuto quarti d’ora di celebrità e decenni (ora possiamo dire secoli) di oblio, sono saliti sugli altari e poi caduti nella polvere. Dalla follia di John Banvard, «il più grande artista dei suoi tempi» (morì nel 1891), l’uomo che volle dipingere tutto il Mississippi in una sola tela, alle elucubrazioni cosmologiche di Thomas Dick, l’astronomo che volle contare tutti gli abitanti dell’universo giungendo alla cifra di «sessanta quadriglioni e cinquecentosettantatremila trilioni», questa è un’umanità ciarlatana e arruffona, idealista e pedante, istrionesca e ingenua. Vittime di un sogno o di un’idea, stritolati dall’ingranaggio che loro stessi hanno messo in moto, possono suscitare allo stesso tempo ammirazione o compatimento.
Prendiamo William Henry Ireland (nato nel 1775). Era talmente ossessionato dall’opera di Shakespeare da non limitarsi a fabbricare falsi documenti del grande bardo, come lettere d’amore o contratti. Fece di più, scrisse due nuovi drammi scespiriani, Vortigern ed Enrico II. Aggiungendo, a scanso di equivoci, un’autobiografia del suo autore preferito. Per un po’ il gioco resse, poi lo sputtanamento fu totale, e il poveretto trascorse gli ultimi anni a fabbricare il testamento di Napoleone e alcune lettere di Giovanna d’Arco... Altra schiava del sublime William fu, nell’Ottocento, Delia Bacon. Convintasi che Shakespeare fosse un prestanome dietro il quale si celavano Walter Raleigh, Edmund Spenser e Francis Bacon (dal quale la signora credeva di discendere), vergò un volumone, L’interpretazione della filosofia dei drammi shakespeariani, in cui esponeva la sua teoria. Alcuni, come Nathaniel Hawthorne, senza aver letto il libro le diedero credito. E le diedero credito proprio perché non avevano letto il libro, che era letteralmente illeggibile, frutto di una galoppante pazzia che condusse la poveretta in un manicomio di New Haven.
Teatrante e anch’egli, a suo modo, scespiriano, fu l’«Amante della Moda», vale a dire quel matto mattatore di Robert Coates. Originario di Antigua, se ne andava in giro pavoneggiandosi in costumi sfavillanti nell’Inghilterra del XIX secolo. Visto che conosceva a memoria la parte di Romeo, il 9 febbraio 1809 debuttò a Bath nel Romeo e Giulietta. Infarcì la recitazione di sculettamenti e smorfie, fece le boccacce al pubblico che rumoreggiava, morì «a comando» più di una volta fino a che in platea... scoppiò un fragoroso applauso. Coates aveva inventato lo Shakespeare d’avanspettacolo. Ma a Londra le cose andarono diversamente, e il guitto venne ben presto dimenticato.
Vogliamo passare ad argomenti «scientifici»? Ecco avanzare la triste figura di John Cleves Symmes. Nato nel New Jersey sul finire del Settecento, lasciata la carriera militare si dedicò alla ricerca del Mondo Interno. Di che cosa si tratta? Semplice, Symmes riteneva che la Terra fosse cava, contenesse sfere concentriche e fosse abitata da persone con lunghe vesti bianche. Visto che nel suo modello del pianeta erano previsti due enormi buchi, uno al Polo Nord e l’altro al Polo Sud, quel che gli restava da fare era trovare qualcuno che gli finanziasse una missione per entrare in quel benedetto Mondo Interno. Il bello è che il Senato degli Stati Uniti stava per investire un bel po’ di dollari nell’impresa. Poi non se ne fece nulla...
Vogliamo allora parlare di luce? Il francese René Blondlot ne inventò una nuova. Nel senso che «scoprì» i raggi che chiamò N in onore alla sua città, Nancy. Questi raggi attraversavano legno, alluminio e carta nera ma non, per esempio, acqua e salgemma. Anche il sole, diceva Blondlot, li emette, ed anche i muscoli e i tessuti nervosi ne sono una fonte. Sicché esporsi ai raggi N fortifica l’organismo. Va da se che la N di quei raggi sta per Nulla di vero, si tratta più semplicemente dell’elettromagnetismo animale. Altro giro, altra luce. Quella studiata dall’ex generale di brigata Augustus J. Pleasonton. Il quale riuscì, il 26 settembre 1871, a farsi brevettare, dal governo degli Stati Uniti, un sistema per migliorare e accelerare la crescita degli animali e delle piante. Come? Esponendoli alla luce solare filtrata da vetri blu. La cosa sembrava funzionare: maiali più grassi, mucche più agili e inferme risanate. Poi la rivista Scientific American si mise di mezzo e andò tutto in vacca. Nel 1878 i raggi blu si spensero.
Ci sarebbero anche il super trasformista George Psalmanazar. E Alfred E. Beach, l’inventore della metropolitana pneumatica. Ed Ephraim Bull, che creò l’uva Concord, la più resistente al mondo. E il pallosissimo poeta Martin Farquhar Tupper.

Ma a noi piace ricordare più di tutti Jean François Sudre. La sua Lingua Musicale, che egli battezzò «Solresol», avrebbe potuto essere un armonico esperanto. Anche la regina Vittoria e Victor Hugo ne erano entusiasti. Poi la musica finì. E gli amici se ne andarono.

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