Roma

Il colonnello che compone per Wojtyla

Parte da Mosca il giro del mondo della «Messa degli umili» scritta dal militare in memoria di Giovanni Paolo II

Claudia Passa

Assieme al ricordo di Papa Wojtyla, un pezzo d’Italia si prepara a fare il giro del mondo. È la «Messa degli umili», composizione per doppio quartetto, coro e orchestra scritta in memoria di Giovanni Paolo II da Antonio Pappalardo, colonnello dei carabinieri, capo di Stato maggiore dei reparti specializzati dell’Arma, compositore di successo nel campo della musica sacra.
Eseguita per la prima volta all’inizio di agosto nella piazza della Libertà su cui affaccia il palazzo Apostolico di Castel Gandolfo, accolta da oltre quindici minuti di applausi, la «Messa degli umili» si appresta a sbarcare da un capo all’altro del globo, da Mosca a Istanbul, a Rio de Janeiro. Ma non è l’unica trasferta in programma per il colonnello con il pallino della musica: in occasione del primo anniversario dello tsunami, infatti, a Calcutta verrà eseguito l’oratorio «Vita nova» per coro e orchestra, firmato nel 2003 dall’ufficiale della Benemerita e dedicato a Madre Teresa in onore della sua beatificazione. All’epoca l’opera sacra venne rappresentata nel suggestivo scenario della Sala Nervi, resa suono e voce dal coro e dall’orchestra del Teatro dell’Opera di Roma, sotto la guida di Gianluigi Gelmetti. Due anni dopo, l’esecuzione avrà come cornice proprio Calcutta, e come sottofondo ideale la ricorrenza della più drammatica catastrofe naturale degli ultimi anni. Lo tsunami, appunto.
Ma torniamo a Papa Wojtyla, e alla Messa realizzata in sua memoria e in onore della sua particolare devozione verso Maria. La composizione rispetta rigorosamente le cinque parti dell’Ordinarium: Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus e Agnus Dei. Ma, tiene a specificare il colonnello Pappalardo, «non è affatto una messa da requiem. È dedicata a Giovanni Paolo II, ma lui non è mai morto. È sempre con noi». A segnarne l’esordio, un coro e un’orchestra assai particolari, messi assieme per l’occasione col nome di «Filarmonica Bhailpevaco». Che sta per i nomi delle religioni dell’umanità: «ba» come Bhagavadgita, il «canto del Beato» della religione indù; «il» come Iliade, per il movimento pre-cristiano e la cultura greco-latina; «pe» come pentateuco, i primi cinque libri della Bibbia; «va» come Vangelo; «co» come Corano.
Un messaggio di pace nel mondo in fiamme, come si evince anche dal libretto che accompagna la «Messa degli Umili» e che recita: «Il crollo delle torri gemelle rappresenta per l’Occidente il totem della distruzione: è il simbolo della civiltà che si sgretola dinanzi al terrore e alla violenza, verso cui il mondo sembra spingersi ineluttabilmente con sempre maggiore disperazione. Fanatismo e intolleranza si diffondono e corrodono le menti in una spirale di odio che cresce a dismisura. Abbiamo dimenticato che - si legge ancora -, pur se con tanti e gravissimi errori nel passato e nel presente, noi abbiamo assunto l’onore di essere la civiltà della costruzione, non solo e non tanto di strade e palazzi, ma di un sistema di diritti. Per cui, quanto nella storia del mondo lo corrompe e lo distrugge, ci indigna».
«Noi - scrive il colonnello Pappalardo - lanciamo rami di ulivo. Agitiamo le palme, salutando, come duemila anni fa, la Vita». Ed è particolarmente significativo che a lanciare ramoscelli di ulivo e agitare palme di pace sia un ufficiale dei carabinieri, un uomo in divisa che proprio nel corso del suo impegno militare è incappato nella più infamante delle accuse: quella di essere un «golpista». Un sovvertitore dell’ordine costituito, un «infedele» intento a chissà quali oscure trame.
Correva l’anno 2000, mese di marzo, governo D’Alema. Il Parlamento era sul punto d’approvare in tempi record la contestatissima riforma dell’Arma. Pappalardo, allora a capo del Cocer, sindacato dei carabinieri, redigeva un documento programmatico intitolato «Sullo stato del morale e del benessere del personale». Vuoi per il momento particolare, vuoi per il clima politico incandescente, vuoi per il timore da parte di alcuni ambienti che l’approvazione della riforma potesse slittare, tanto è bastato perché l’ufficiale venisse accusato di essere un golpista. Ovvero, in termini giuridici, di istigazione ai militari a disubbidire alle leggi. L’accusa è crollata nel giro di pochissimo tempo. A ruota è arrivata l’archiviazione da parte della magistratura militare. Poi la riabilitazione totale all’interno dell’Arma, coronata oggi da un incarico di prestigio che difficilmente potrà ripagare le sofferenze patite.
Su questa vicenda, però, è presto per scrivere la parola fine. Già, perché a distanza di cinque anni la storia sembra essersi ribaltata. Ad ottobre, infatti, il colonnello Pappalardo dovrà comparire in tribunale, questa volta come parte lesa, a chiedere un risarcimento danni in sede civile a quello che ha sempre definito il suo «grande accusatore»: l’allora comandante generale dell’Arma, il generale Sergio Siracusa.

L’istanza è già pronta, e la sua discussione riaprirà una storia che il diretto interessato - Pappalardo - non ha alcuna intenzione di gettare nel dimenticatoio.

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