Barack Obama sale per la prima volta sul podio dell’Assemblea Generale dell’Onu e riconosce tra gli applausi che in passato l’America ha «agito unilateralmente». Rivendica il cambiamento imposto dalla sua amministrazione e rivolge un vibrante appello per una nuova era di responsabilità condivisa fra le nazioni. Per un mondo dove «nessuna nazione deve dominarne un’altra» e dove «la democrazia non può essere imposta dall’esterno». Un futuro «in cui tutte le nazioni hanno diritti, ma anche responsabilità» e i cui «quattro pilastri fondamentali» sono «la non proliferazione e il disarmo, la promozione della pace e la sicurezza, la conservazione del nostro pianeta e un’economia globale che crei opportunità per tutti».
Parole importanti pronunciate dal leader della superpotenza mondiale, ma Moammar Gheddafi, l’imprevedibile istrione libico che aveva cominciato la giornata estraendo un pennarello da un taschino e scrivendo sulla poltrona del presidente di turno dell’Assemblea generale, che è il diplomatico libico ed ex ministro degli Esteri Ali Treki, «noi siamo qui» in arabo e in inglese, è riuscito a rubargli la scena.
Il colonnello di Tripoli ha infatti approfittato della presidenza libica e ha tenuto un torrenziale discorso di un’ora e 35 minuti, ignorando il termine previsto che era di 15 minuti e sconvolgendo il programma della giornata. E costringendo chi doveva parlare dopo di lui, Silvio Berlusconi incluso, a un’assai poco protocollare attesa.
Il contenuto del discorso di Gheddafi non è stato meno scioccante dello stile. Il colonnello ne ha avute per tutti, esprimendosi in arabo con ragionamenti a ruota libera che hanno stremato i traduttori. Ha attaccato i fondamenti stessi dell’Onu, sostenendo che la sede dev’essere trasferita da New York e proponendo che la prossima Assemblea generale si tenga «a New Delhi o a Pechino». Anche il Consiglio di Sicurezza dev’essere spazzato via a meno che, ha precisato, non sia riformato radicalmente, senza diritto di veto e con un seggio per l’Unione Africana. Gheddafi ha insistito sull’idea che il diritto di veto delle grandi potenze sia «esso stesso terrorismo».
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