Cultura e Spettacoli

Com’era reazionario quel Sessantotto

Parlano i protagonisti di quella stagione: per loro il ricorso alla piazza era una forma di democrazia

Molti di loro non sono scomparsi. Tutti sono invecchiati. Alcuni, come Occhetto e Petruccioli, erano giovani dirigenti, allineati e ortodossi, del Pci. Uno come Luca Cafiero era già assistente universitario e sognava spazi aperti a sinistra. Mario Capanna ancora oggi dice che lui veniva dalla politica di marciapiede, niente partiti, niente istituzioni. Paolo Flores D’Arcais era un eretico espulso dal partito. Luciano Benadusi era un cattolico deluso dalla sinistra Dc. Franco Piperno studiava a Pisa ed era presidente dell’Unione Goliardica. A Pisa c’era anche Adriano Sofri. Valentino Parlato era in Brasile e quando il ’68 arrivò non ne fu entusiasta. «Mi appariva - ricorda - come un’ubriacatura di libertà, senza un serio fondamento, ma il Pci usò questa spinta in modo astuto. Il segretario Longo capì che queste forze erano utili, forze delle quali appropriarsi, ma non da indirizzare in uno sbocco di grande trasformazione sociale».
Il Sessantotto è un luogo del tempo da cui è difficile fuggire. È lì che la modernità incrocia, impatta l’Italia e va in frantumi. Tutto quello che viene dopo è la storia di questo impatto e dei suoi frammenti. Ma il Sessantotto può essere raccontato come l’Antologia di Spoon River dei sogni perduti, come una sconfitta della politica, come un problema irrisolto. La crisi del sistema politico italiano e il Sessantotto (Rubettino, pagg. 558, euro 28) di Giovanni Orsina e Gaetano Quagliariello è anche questo. Non è - dicono loro - una ricerca sul Sessantotto, ma uno studio su come la politica italiana reagì alla sfida della contestazione studentesca. Le voci sono quelle di quarantuno protagonisti di quegli anni. È un’antologia. È una ricerca che si basa sulla memoria orale, ma è soprattutto un modo per fare i conti con il Sessantotto sradicando i miti e le passioni, denudandoli, e portando il discorso al nocciolo della questione politica: cosa è rimasto dopo la tempesta, come l’Italia ha digerito l’impatto.
La politica, negli anni ’60, fatica a contenere l’urto con la modernità. Forse serve più tempo. Le masse sono entrate nella storia. L’operaio viene investito di un ruolo mitico. È lui, l’operaio-massa di Mario Tronti, il motore della storia. Lo dice il marxismo, lo dice anche chi il marxismo vuole rileggerlo e rinnovarlo. L’esperimento politico del centrosinistra è in una situazione di stallo. Servono le riforme, ma i partiti si mostrano troppo rigidi e chi sta fuori non si accontenta. La tesi di Orsina e Quagliariello è che il Sessantotto finisce per esasperare tutte le contraddizioni di una situazione in bilico, tira fuori la parte più irrazionale della cultura e del Paese, e non risolve nulla. È come entrare in una casa dopo una festa di adolescenti, in terra ci sono cocci di bottiglia, birra e alcol che rendono appiccicoso il pavimento, resti di cibo su sedie, divani e tavolini, qualche ubriaco si aggira ancora solitario alla ricerca dei ricordi e delle sensazioni perdute. Ma in tutto questo, qualcuno ha evocato alcuni vecchi spettri.
Il Sessantotto spazza via il cammino di una sinistra riformista e riporta il conflitto politico a una situazione di scontro esistenziale, senza compromessi con il nemico, dove si può solo vincere o soccombere. L’altro non ha legittimità. L’altro non può essere minoranza. L’altro può solo sparire. I leader del movimento studentesco non nascono dal nulla. Ma spesso hanno alle spalle i discorsi sulla «resistenza tradita», sulla rivoluzione imminente, sul destino storico e necessario della sinistra. Sono figli che si ribellano ai padri, ma che sono cresciuti comunque con un concetto di democrazia che non è rappresentanza, parlamento, mediazione di interessi. Ma è piazza, popolo, democrazia diretta, partecipazione, come si diceva allora. «Non per caso - scrivono Orsina e Quagliariello - il radicalismo sistemico intrinseco alla Repubblica fu utilizzato dagli studenti per mettere in mora gli adulti, rovesciando su di essi una sorta di complesso di colpa. È emblematico, per prendere un solo esempio, quello che Marco Boato rinfacciò ai suoi interlocutori in uno dei primi contraddittori televisivi, nel febbraio del 1968: “la società attuale non è forse la società uscita dalla Resistenza? Ma se la società attuale fosse così come l’avevano progettata gli uomini della Resistenza questo tipo di contestazione, questo tipo di lotte forse non sarebbe in questi termini”».
Il sistema politico in quegli anni è bloccato. La Dc non vede possibile una ulteriore apertura a sinistra. I socialisti hanno perso il loro ruolo di sponda. Craxi è ancora lontano e le sue idee di autonomia socialista da Botteghe Oscure le applica all’Università (e il suo avversario è già Occhetto). Il Pci evoca lo spettro delle piazze in pubblico, e si adegua allo status quo in privato. Ed espelle i giovani eretici. Il problema è che la società ribolle e l’università è il termometro. La politica negli atenei non è un’invenzione del movimento studentesco. C’era già prima. C’erano i cattolici dell’Intesa, i social-comunisti dell’Unione Goliardica italiana, c’erano i liberali dell’Agi e i post-fascisti del Fuan. Esisteva un parlamento (chiamato Unuri), dove si sperimentavano formule politiche innovative, come il compromesso storico del 1964 che portò il cattolico Nuccio Fava alla presidenza con il voto degli studenti comunisti. E c’era, appunto, lo scontro tra il riformismo istituzionale e l’estremismo movimentista. Il Sessantotto sancisce la vittoria della seconda opzione e uccide la politica nel nome della rivoluzione. Nel momento in cui si grida «tutto è politica» si comincia a chiedere l’impossibile. Ma quando si chiede l’assoluto la politica è morta. È questo il paradosso. Il Sessantotto fallisce perché le sue richieste politiche sono incompatibili con la realtà. Non sono richieste, ma sogni. Il sistema dei partiti non si rinnova, ma si chiude e s’impantana. Il terrorismo esaspera tutto. E chiude ancora di più le porte al nuovo. La modernità non viene gestita, ma rifiutata o ignorata.

Il risultato è il nostro presente.

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