Sì, Comisso, lo scrittore dell'attimo, della notazione sensuale, tutto superficie. Va bene, tutto giusto. Però, cari critici, lasciatevi raccontare cosa succede a noi lettori. Dopo un anno dalla chiusura del libro, ancora ci divertiamo a rigirare nella mente le immagini di Gente di mare. Dopo 5 anni, sono ancora lì, nella nostra testa, le tempeste, le rade, il contrabbando, la morte del marinaio Angelo, il porto, il capitano, Enrico il mozzo. Dopo 15 anni, in effetti, quando guardiamo il mare, con quella sua luce bianca o quei lampi in lontananza, beh, insomma, ci viene in mente Comisso. Dopo trent'anni, ecco, un dubbio ci coglie, forse tardivo anzi decisamente tardivo. Se da tre decenni non riusciamo a osservare un'onda senza pensare con immutato piacere a Gente di mare, beh, forse tanto superficiale, tanto risolto nell'attimo dell'osservazione sensuale non può essere questo Comisso. Infatti non lo è. Per niente. Comisso, il primo Comisso, quello de Il porto dell'amore (1924), Gente di mare (1928), Giorni di guerra (1930) è il sogno. Il sogno che la gioventù sia eterna, che il mondo sia disponibile a ogni scorreria, che la vita abbia sempre il sapore del miele e delle pesche. La morte? Anche la morte si può accettare, a certe gloriose condizioni, in pieno sole, a dorso di mulo, in mezzo alla verde natura, per una giocosa fucilata del nemico, come in Giorni di guerra, sul fronte del Carso. Per questo le sue memorie di combattente della Prima guerra mondiale sono così diverse da quelle di molti altri scrittori finiti al fronte. In Comisso c'è tutta la violenza della guerra: la battaglia del Montello, il Monte Grappa, i cadaveri gonfi che sembrano appartenere a un'altra specie, il rombo del cannone, le colonne di fumo, le linee telefoniche da stabilire, la tentazione di stuprare le donne del nemico (sì, esiste in tutte le guerre), le brevi licenze, il senso di responsabilità schiacciante nel trovarsi alla guida di un manipolo di uomini. Eppure, perfino nella guerra, si spalancano momenti di bellezza e di gioia di essere vivi: un bosco fiabesco, le case bianche di Gorizia in fondo alla valle, una sigaretta dopo un'impresa pericolosa, andare in bicicletta cantando felici, nonostante il fronte sia vicino. La guerra è finita ma il soldato Comisso ha ancora una battaglia da combattere. Agli ordini del Comandante Gabriele d'Annunzio invade Fiume. È il massimo. Comisso si trova inquadrato in un esercito che non sa cosa sia la disciplina. Trascorre le giornate col mitico aviatore Guido Keller e, tra una fantasticheria e l'altra, cerca di dare un'anima alla Fiume occupata attraverso la rivista Yoga, scritta quasi integralmente da lui. Fiume è circondata da nemici, inclusi i politici italiani che non vedono di buon occhio l'impresa dannunziana. Eppure è una festa continua, un inno alla intraprendenza, un'esplosione di gioventù.
Siamo tornati dunque alla gioventù. Purtroppo il sogno di una gioventù eterna è minato alla base, come Comisso dirà esplicitamente nel suo ultimo libro, Attraverso il tempo, uscito nel maggio 1968, quando altri giovani, a Parigi, salivano sulle barricate, ignari «del cinico scorrere e mutare» che leva la maschera alla vita, rivelandone il «volto tremendo». La delusione è dunque un destino. È già evidente nell'esordio de Il porto dell'amore, un diario molto sui generis dell'occupazione di Fiume, una splendida avventura sospesa tra nazionalismo e sensualità, la conquista (e poi la perdita) di un luogo dell'anima e della politica in cui nuovi leggi si impongono con la forza ma prescrivono la dolcezza di un bacio scoccato in un bosco, a mezzanotte. Certo, è dura svegliarsi all'aridità della età matura. Per questo non si riesce a dimenticare Comisso.
In quanto alle imprecisioni grammaticali, alle indecisioni stilistiche, alla incerta costruzione dei romanzi d'invenzione... Come sopra, tutto vero. Ma cosa conta? Se la fragile giovinezza (dell'animo) e la purezza (dello sguardo) hanno avuto un poeta, questo è stato Giovanni Comisso. Le virgole non sono tutte quante al punto giusto? Ce ne faremo una ragione. Il luogo comune dice che Comisso è estravagante rispetto alla tradizione italiana a parte un certo dannunzianesimo per così dire dimesso. Anche in questo caso, può essere. Ma che dire di chi è venuto dopo di lui? I Sillabari dell'amico Goffredo Parise, anche se completamente originali, sono forse ipotizzabili senza Comisso? Certamente no.
Nato e morto a Treviso (1895-1969), Comisso fu giornalista specie al Corriere della Sera e al Mondo di Mario Pannunzio. Fu sodale di Filippo de Pisis, amico di Valery Larbaud che avrebbe voluto tradurlo e lanciarlo in Francia su segnalazione di Eugenio Montale, che pure sembra provenire da tutt'altro universo letterario. Sicuri? Cediamo la parola al grande poeta: «Ho cambiato case tante volte nella mia vita. Non erano della stessa dimensione queste case e spesso si trovavano in città diverse. I libri, a migliaia, sempre furono vittime di questi traslochi. Impietoso in ogni occasione, io che avevo libri fino nella stanza da bagno, li regalavo, li gettavo via. Anche di recente ho cambiato casa. E l'altra sera, andato in biblioteca, ho voluto rendermi conto dell'ultima decimazione prendendo a caso uno dei libri rimasti. Aperto vidi che era un Comisso. Eppure non mi ricordavo con piena coscienza di questa scelta, ma ne ero comunque rallegrato.
Presi allora un altro scaffale, e ancora mi trovai in mano un Comisso. E così ancora e ancora... Mi resi allora conto di quale stella brillante e misteriosa vegliasse sulle mie scelte, la stella Comisso». Non ci si separa mai da questo scrittore...
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