Il commento Basta illusioni, per l’islam siamo «infedeli» da eliminare

Sono 1.387 anni da quel settembre del 662 in cui, con l’arrivo a Medina di Maometto (Egira), inizia la storia (e il calendario) dell’islam.
Da allora non è passato giorno che maomettani non abbiano aggredito, vessato o fatto fuori un «infedele». Uguale sorte è toccata a cristiani, ebrei, pagani, buddisti o induisti che si sono trovati sulla loro strada, al mondo intero insomma, visto che il loro è un progetto di conquista e di «conversione» globale.
Come (quasi) tutte le religioni, anche l’islam ha come obiettivo l’espansione mediante conversione. Salvo episodi poco edificanti generalmente confinati al passato, tutti gli altri cercano di raggiungere l’obiettivo mediante il convincimento. Per i musulmani non funziona così. Non ci sono uomini o donne (figuriamoci!) che vanno in missione a cercare di convertire chi la pensa diversamente utilizzando il lavoro, l’esempio e il sacrificio personale. Non ci sono islamici che, educati e insistenti, fanno il porta a porta come i Testimoni di Geova. Non ci sono islamici che girano il mondo in giacca e cravatta, sorridenti e cortesi come i Mormoni.
Le loro conversioni le hanno fatte con le conquiste militari, sottomettendo e costringendo all’apostasia i vinti e - come è spesso successo - liberando dall’insostenibile peso dell’involucro carnale le anime che non mostrano il necessario entusiasmo verso la nuova religione. Il poco elegante trattamento da riservare agli «infedeli» è compiutamente descritto da parecchie Sure del Corano.
L’islam non conosce sfumature di impegno: si è o non si è «fedeli». Fanno tenerezza quelli che insistono nel sostenere l’esistenza di un islam moderato: se è moderato non è islamico.
La religione è totalizzante e monocromatica, copre il mondo con un immenso burqa scuro, con la sistematicità con cui certe piante infestanti ricoprono alberi, campi ed edifici: fa sparire ogni colore, ogni diversità, ogni allegria, ogni segno di vita non controllabile, proprio come il buio angosciante di Mordor descritto da Tolkien. Cancella ogni bellezza che non sia codificata, ogni segno artistico che non sia ortodosso, dai monasteri del Kosovo fino ai Budda di Banyam. Annienta ogni segno di cultura «diversa». Si racconta che il conquistatore di Alessandria, Amr ibn al-As, nel 642, avesse chiesto al califfo Omar cosa fare della grande biblioteca che conteneva l’immenso sapere antico ed ellenistico; la risposta sarebbe stata: «Se i libri dicono cose uguali al Corano, sono inutili, se dicono cose diverse sono dannosi». La biblioteca ha fornito combustibile per sei mesi.
Si favoleggia di epoche di grande cultura e tolleranza: si tratta di episodi storici condannati dall’ortodossia islamica come frutto di commistioni impure o di cadute di religiosità. Erano «cedimenti» al cristianesimo, all’ebraismo o a religioni e culture più antiche; il favoloso impero Moghul in India era impregnato di induismo ed è finito quando l’ortodossia ha ripreso il sopravvento.
Fino ai primi del 900 i sistemi di «conversione» sono rimasti invariati: intere porzioni del nostro paesaggio ne sono state modellate. Le fortificazioni, l’arroccamento dei Paesi e l’impaludamento di quasi tutte le coste mediterranee d’Europa restano a testimoniare l’aggressività islamica. Oggi i metodi sono cambiati: non vengono più brandite le scimitarre ma i petrodollari degli sceicchi, non ci sono più orde di giannizzeri dai grandi turbanti ma milioni di individui che attuano una penetrazione strisciante, una occupazione silenziosa di saraceni in borghese e di donne eternamente gravide sotto le loro palandrane.
Ognuno di loro costituisce una cellula del grande esercito di invasione che non irrompe alle frontiere ma che si alimenta come un cancro all’interno del nostro corpo sociale.

Quello che viene in superficie dovrebbe fare aprire gli occhi anche ai più intordelliti buonisti: sono le piccole eruzioni che precedono il cataclisma. Guardiamoli bene: dietro molti di loro pende l’estremità di una miccia.

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