Il commento Ma c’è chi fa finta di non capire

Tutti si aspettavano che parlasse e Benedetto XVI ha parlato. Ha parlato della revoca della scomunica ai vescovi lefebvriani come «atto di paterna misericordia» e ha auspicato che essi riconoscano l’autorità del Concilio Vaticano II. Ha ricordato la Shoah come «l’eccidio efferato di milioni di ebrei», ha lanciato un monito «contro l’oblio, contro la negazione o il riduzionismo». Parole chiare, peraltro in linea con ciò che aveva sempre detto.
Ora, è indubitabile che nel caso Williamson, il vescovo lefebvriano che ha negato l’esistenza delle camere a gas e dello sterminio di massa degli ebrei, vi sia stato, da parte del Vaticano, qualche difetto di regia e una sottovalutazione delle possibili conseguenze. L’intervista del prelato alla televisione svedese, rilasciata qualche mese fa, è stata trasmessa il 21 gennaio, la stessa data che porta il decreto di revoca della scomunica, reso pubblico tre giorni dopo. Nelle 48 ore successive alla messa in onda, si poteva fare di più e di meglio per stroncare sul nascere interpretazioni strumentali dell’atto papale, peraltro prontamente smentite dal direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi, e da L’Osservatore Romano.
La revoca della scomunica ha coinciso con la settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, che si è conclusa proprio sabato scorso. Non sarebbe dovuta sfuggire, però, la portata della quasi coincidenza con il Giorno della Memoria, cioè con un momento nel quale, ricordando l’immane tragedia del genocidio perpetrato dai nazisti, la sensibilità del mondo ebraico è ancora più acuta. Bene ha fatto dunque il Papa ad essere così esplicito, anche contro il tentativo di negare o di ridurre la portata dell’evento che ha indelebilmente segnato il popolo ebraico e la coscienza dell’Europa cristiana.
Va però anche notato che nella vicenda consumatasi negli ultimi giorni non sono mancate strumentalizzazioni e fraintendimenti. La revoca della scomunica è stata fatta passare come ritrovata e piena unità tra la Santa Sede e la Fraternità San Pio X, e non - correttamente - il primo passo di un cammino che deve ancora essere percorso. Ma ciò che è apparso davvero grave, è stato il lasciar intendere che con questo gesto il Papa volesse attenuare in qualche modo gli inequivocabili giudizi espressi da lui, dai suoi predecessori, dal Concilio sul rapporto con gli ebrei, sull’antisemitismo, sulla Shoah. Si è domandato a gran voce al Papa di parlare, di chiarire, di spiegarsi, quasi che le imbarazzanti e inaccettabili frasi negazioniste provenissero dai sacri palazzi vaticani, invece che da un prelato purtroppo avvezzo a straparlare, e non soltanto per quanto concerne la storia.
È accaduto per l’antica preghiera del Venerdì Santo, modificata personalmente dal Pontefice su sollecitazione dei rabbini di Gerusalemme, ma non ancora gradita al punto da far dire al rabbino di Venezia che Ratzinger riporta indietro «di cinquant’anni» l’orologio del dialogo. È accaduto con il caso Williamson. Sembra che ogni volta tutto debba essere ribadito daccapo.

Sembra che non si comprenda, o si finga di non comprendere, come la via del dialogo verso «i nostri Fratelli destinatari della Prima Alleanza» è stata intrapresa una volta per tutte dalla Chiesa, dai Papi e più che mai da questo Papa.

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