Il commento Il carcere preventivo come tortura uccide la verità

La tortura delle due donne di San Vittore carcerate in attesa di giudizio è finita. Chi ha patito è finalmente a casa, in pace. Dunque siamo contenti tutti. Le dirette interessate e le loro famiglie perché sono uscite da un incubo. Festosi anche i pm: le indagate hanno patteggiato, la Procura ha ottenuto la confisca di abbondanti denari e ora si prepara a nuovi combattimenti contro altri indagati rinfrancata da questo primo esito che userà per avere ragione e per dimostrare che una buona dose di galera preventiva corrobora la giustizia. Tutto a posto? Mica tanto.
A noi resta un sospetto, probabilmente sbagliato, ma punge dentro, siamo fatti così, e abbiamo la memoria lunga. La tortura è finita perché ha sortito il suo effetto, cioè ha indotto due persone nient’affatto criminali a consegnarsi alla volontà dei pm. Non sapremo mai se sono innocenti o colpevoli.
Leggendo infatti la sentenza del giudice per le indagini preliminari - perfetta nella sua sobrietà - colpisce una affermazione a proposito dell’ex assessore Rosanna Gariboldi e di Maria Ruggieri, segretaria dell’imprenditore Giuseppe Grossi (quest’ultimo ancora carcerato in attesa di trapianto cardiaco). Ha scritto il gip di loro: «Non hanno frapposto ostacoli all'accertamento alla verità e il loro comportamento è stato caratterizzato da correttezza e collaborazione, elementi idonei a ritenere sussistente una limitata capacità a delinquere». Ci domandiamo: e allora perché il carcere preventivo? Ha senso infliggere un trauma com’è la prigione, protratta per quasi tre mesi, sapendo che la pena cui si sarebbe giunti sarebbe stata comunque tale da consentire la pena condizionale? Qualcuno potrebbe obiettare: se non ci fosse stata questa condanna anticipata, che per una donna rappresenta nella sua rarità una pena di fatto molto più pesante, non avrebbero mai patteggiato, tutto sarebbe andato per le lunghe, e sarebbe stato difficile giungere a una sentenza di colpevolezza in Tribunale con rito ordinario. Vero. Ma nessun pm sottoscriverebbe mai questa frase, perché a questo punto sarebbe la prova che la cella è usata per indurre alle confessioni non si sa se vere o verosimili, consigliati da avvocati, parenti, amici, dal medico che ti vede provata e teme un cedimento, dai pm (ma questo è ovvio) vogliosi di mettere fieno in cascina per dimostrare in fretta di avere ragione.
Durante l’età d’oro (e di suicidi) del pool di Mani pulite l’uso di questo sistema da goccia cinese sul cranio, con promesse di scarcerazione più o meno mantenute, è stato un fattore che invece di moralizzare la vita pubblica ha introdotto un ulteriore fattore di corruzione.

Ha generato in taluni pm poi passati in politica un delirio di onnipotenza, e spinto a individuare un capro espiatorio a cui addossare alla fine tutto il male del mondo (il nome lo conosciamo). Per favore, non ripetiamo il peggio della nostra storia. Intanto un abbraccio a Rosanna per la cui libertà ci siamo battuti.

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