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Il commento Caro Fini, cinque anni non bastano per svendere la Patria

Viviamo tempi di scarse e tiepide certezze e fa perciò male vedere lo sbriciolamento di quelle superstiti. Una che sembrava granitica è il patriottismo di Gianfranco Fini: tutti lo ricordano arrampicarsi con l’insospettata agilità di un tigrotto di Monpracem sulla rete dell’iniquo confine di Gorizia, difendere l’Inno di Mameli con molto più ardore di quanto non meritino le sue qualità melodiche o bacchettare indignato i leghisti che ipotizzano impieghi poco solari del vessillo nazionale. L’altro giorno ha prima rasserenato il popolo affrontando con piglio ardimentoso il problema dei fumi di scarico degli aerei in Libia, ma poi ha assestato una dolorosa doppietta: un «diretto» sulla concessione della cittadinanza agli extracomunitari e un «gancio» sul loro diritto al voto.
Confortati dal patriottico curriculum dell’onorevole, anzi presidente, Fini, credevamo che la cittadinanza italiana fosse un valore inestimabile da difendere col pugnale degli arditi e da considerare un bene inestimabile, e ora ci sentiamo dire che la si può dar via per così poco. Roba da «paghi due (anzi niente) e prendi tre». Cinque anni servono per prendere una licenza elementare, sono la pena che tocca a chi diffonda malattie delle piante: è un saldo troppo generoso. Suona strano che uno come me, che da tanto tempo non si commuove più a sentire l’inno del Piave, debba dirlo a chi invece ce l’ha probabilmente anche nella suoneria del telefonino: presidente Fini, non si dà via la Patria per così poco!
È giusto che un italiano, nato in Italia da genitori italiani, ci metta diciotto anni prima di guadagnarsi il diritto di voto e uno straniero lo possa ottenere prima che gli si siano asciugati i pantaloni bagnati nel canale di Sicilia? Si dirà che gli anni dell’infanzia non possono essere paragonati a quelli di fattiva maturità e magari (si fa per dire) di lavoro. Negli anni della giovinezza (mi perdoni Fini se lo scrivo minuscolo) uno è come una spugna, assorbe tutto, impara, prende abitudini e accenti che conserverà per sempre. Per questo ci vuole più tempo a riformattare un adulto che a plasmare un giovane. Da grandi è più difficile, non si cambia in profondità e si tende a conservare l’imprinting originario: i foresti non devono solo imparare a essere italiani, ma devono anche scrollarsi di dosso tutto quel che contrasta con la loro nuova identità. Non solo: i 18 anni dei nostri ragazzi diventano secoli e millenni se si aggiungono le storie dei padri, secoli di fatiche, decenni di tasse, guerre e magari anche morti. Come si fa a mettere sullo stesso piano chi aveva un bisnonno sul Montello (o anche a Caporetto, la sostanza non cambia) con chi ha al massimo qualche ricordo di Gordon Pasha o di Khayr al-Din, detto il Barbarossa. I nostri Barbarossa sono altri.
Se vuole ridare vigore al senso di nazionalità e di cittadinanza Fini richieda diciotto anni di buona condotta: se si subisce una condanna il timer si azzera e si ricomincia da capo. Si perdonano solo le multe per divieto di sosta. Diciotto anni continui di lavoro onesto e magari uno di servizio sociale per la comunità sono cosa equa. Se uno si stufa prima si vede che all’elmo di Scipio preferisce un tarbush o qualche altro copricapo più leggero e areato. E si cancelli la facoltà di acquistare la cittadinanza per matrimonio: Cupido porti in dono solo un bel permesso di residenza, collegato alla convivenza e slegato dalla reversibilità delle pensioni. Si vedrà se certi amori multiculturali sono poi così inossidabili e solidi.
Insomma, presidente Fini, se l’italianità è un bene prezioso che lo si conquisti con fatica.

I gioielli non si danno via così. E poi, le pare giusto che gli stranieri possano diventare italiani in cinque anni e i padani debbano aspettare secoli per smettere di esserlo?

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