Sono tempi duri per chi governa. La pesante sconfitta subita da Nicolas Sarkozy nel primo turno delle elezioni regionali francesi non è tanto la conseguenza degli errori compiuti durante la prima metà del suo mandato, quanto la conferma di una tendenza universale: in questa fase di recessione, in cui molti lamentano un peggioramento del proprio tenore di vita, gli elettori dei Paesi liberi tendono a «punire» i responsabili della politica economica, indipendentemente sia dalle loro effettive responsabilità, sia dal loro colore politico; e quando proprio non se la sentono di votare per lopposizione, perché troppo lontana dalle loro idee, esprimono il loro malcontento rifugiandosi massicciamente nellastensione (senza magari rendersi conto che il risultato finale è quasi lo stesso).
Basta dare uno sguardo in giro per costatare che, oggi come oggi, tutti i leader dei grandi Paesi democratici sono in gravi difficoltà. Barack Obama, salutato al suo arrivo alla Casa Bianca come una specie di messia, ha perduto in un solo anno più del 20% dei consensi, rischia di prendere una sberla memorabile nelle prossime elezioni di midterm e, se andrà avanti così, potrebbe perfino non ottenere un secondo mandato. Altri due capi di governo di sinistra, linglese Gordon Brown e lo spagnolo José Luis Rodríguez Zapatero, sono quasi certi di perdere le prossime elezioni nonostante la relativa modestia dei loro avversari conservatori. Sul fronte opposto, sta affondando il pur efficiente governo svedese di centrodestra di Fredrick Reinfeldt e comincia ad annaspare perfino quello di Angela Merkel, considerata fino a poco fa lunica star della politica europea. Clamoroso, poi, è il pesante arretramento subito in Russia - sempre nelle elezioni regionali - dal partito di Vladimir Putin, abituato a trionfare nelle urne anche con il ricorso a metodi non del tutto ortodossi. In questo panorama, è quasi stupefacente che il governo Berlusconi sia arretrato nei sondaggi di soli quattro punti percentuali, e per giunta non per ragioni legate alla congiuntura.
La spiegazione del fenomeno è, nello stesso tempo, semplice e complessa. Semplice, perché i cittadini, aizzati dalle opposizioni, dai sindacati, dalle associazioni dei consumatori e da una parte dei media, si attendono - anzi pretendono - dai governi molto più di quanto questi possono in questo momento dare; e quando ritengono che le loro aspettative non sono state soddisfatte, reagiscono con il voto negativo.
Complessa, perché queste reazioni sono magari istintive, ma soprattutto irrazionali: non sono, cioè, tanto il risultato di una scelta, quanto il frutto avvelenato di quella «dottrina statalista» secondo la quale i governi dovrebbero esercitare a vantaggio dei cittadini poteri che in realtà non hanno. Invece di prendere atto che, in tempi di recessione globale, neppure il più brillante dei leader ha la capacità di creare (o anche solo di conservare) posti di lavoro reali, che quando le entrate sono in calo nessuno Stato può permettersi generosi sussidi alle famiglie o sostanziali riduzioni della pressione fiscale senza mandare allaria i conti pubblici, gli elettori di ogni Paese mettono i rispettivi governi sul banco degli imputati, senza porsi la domanda se lalternativa sarà migliore o peggiore. Si può sostenere che questa, in fondo, è la democrazia, ma forse è anche un modo sbagliato di farne uso. È chiaro che nessuno dei governanti oggi in difficoltà è stato immune da errori e che altri fattori, oltre alleconomia, possono avere contribuito allimpopolarità: lo stile di vita per Sarkozy, la mancanza di comunicazione per Brown, leccessiva propensione al compromesso per Merkel, lostinazione a portare avanti una riforma impopolare per Obama, e via dicendo.
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