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Il commento E con gli immigrati arriva la privatizzazione delle donne

La poligamia si diffonde in Europa. In Italia, ma anche in Inghilterra, come ci ha informato la Bbc qualche mese fa. E altrove, più nascostamente. Che significa e cosa accadrà? Un buon criterio è badare alla questione del potere. La poligamia che si diffonde ora con l’immigrazione islamica è in realtà una poliginia: un uomo può avere diverse mogli. Un regime molto diverso dalla poliandria, anch’essa poligamica (ancora praticata in alcune regioni, ad esempio in Asia), dove le donne possono avere diversi mariti. Mentre la poliandria è motivata spesso dalla scarsità di uomini in alcune regioni (o periodi storici: durante la Guerra dei 30 anni erano pochi perché si ammazzavano tra loro), la poligamia/poliginia è una sorte di privatizzazione delle donne da parte dell’uomo. Esse non appartengono più a se stesse, né alla società, ma al marito. Che, in cambio, provvede loro, o dovrebbe farlo. La questione, ridotta all’osso, è questa: la donna è dell’uomo; risponde ai suoi bisogni: generativi, sessuali, di compagnia. Siccome l’uomo di bisogni ne ha molti, e svariati, per soddisfarli può avere più di una moglie. Se una moglie è sterile, se ne prende un’altra. Per i giorni del mestruo di una, ce n’è un’altra di riserva.
Tenendoci alla larga da ogni moralismo, che fiorisce rigoglioso nelle vicende della sessualità per giunta legate alle credenze religiose, dobbiamo tener d’occhio un paio di questioni sulle quali si regge il paradigma dell’Occidente cristiano, l’unica civiltà e cultura cui la maggior parte di noi appartiene, e che ci fornisce un orientamento di ampio respiro. Uno è quello della libertà: l’uomo, e la donna, non appartengono a nessuno, se non a se stessi (e, per la persona religiosa, ma non per lo Stato, a Dio). Se un uomo vuole avere diverse donne, o una donna diversi uomini, possono farlo, ma sulla base della reciproca libertà, non garantiti da un contratto matrimoniale, giuridicamente vincolante per entrambi. Che non può neppure prevederlo - e questo è il secondo criterio - per via della palese ineguaglianza di condizione tra i coniugi.
Certo il matrimonio cristiano, quello proposto da Gesù con l’esclusione del ripudio e la richiesta di consegnarsi all’altro, il marito alla moglie e la moglie al marito, è difficile, e la trasgressione corrente, anche se la coscienza, a volte, rimorde. Infatti, sempre meno persone si sposano, sempre di più rimangono single, e, come è noto, le forme e i tipi di unioni, più o meno stabili, si moltiplicano. Almeno, però, in questo modo trasgredire non diventa un delitto penale, al massimo solo uno dei fatti che accompagnano la separazione tra i coniugi. Non è un granché, ma non si versa il sangue, per lo meno in nome della legge.
Chi scrive è perfettamente al corrente, e ne ha trattato a più riprese, del disastro rappresentato in Occidente dai milioni di padri cacciati, dopo la richiesta di divorzio della donna innamorata di un altro uomo, cui vengono rapidamente affidati la casa coniugale e i figli. Con notevole indifferenza, soprattutto in Paesi a forte tradizione mammonica (o maternalista) come l’Italia, circa la sua capacità di educarli, e nei confronti delle conseguenze della cacciata del padre sulla psiche dei figli.
La sommaria decapitazione della paternità ha aperto una falla pericolosa nella capacità di tenuta della società occidentale verso maschilismi arcaici, come la poligamia islamica. I maschi frustrati diventano cattivi.

Non è però una ragione sufficiente per scambiare l’impegnativo amore «da persona a persona» inventato da Gesù per modelli rozzi e crudeli, coi loro tribunali e catene.

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