Il commento Un eroe sempre autentico nel bene e nel male

Forse è meglio partire dalla fine. Dall’ultima parte del necrologio di Mordecai Richler: «La famiglia chiede che le donazioni siano fatte al Canadian Cancer Society, a Crentraide, a Médicins sans Frontières (oppure alla squadra di hockey dei Canadiens, una vera causa persa)».
L’avessero scritto per Barney Panofsky, il protagonista del capolavoro di Richler la Versione di Barney, avrebbero tolto la parentesi. Perché Barney, tra tutto, avrebbe preferito che anche un solo centesimo donato per la sua morte andasse ai Canadiens. Un amore totale: un amore vissuto e mai nascosto, anzi un amore manifestato nonostante i benpensanti avrebbero preferito che l’interesse di Barney e ovviamente anche di Richler fosse altro. Il golf, magari, oppure qualcosa che con lo sport non c’entrasse affatto. E invece la forza di Barney e del suo creatore è sempre stata questa: vivere la propria identità senza identificazione. Politicamente scorretto, è la definizione più frequente. È la più vera, anche la più efficace. Eppure forse Richler avrebbe ripudiato anche quella. Perché era nemico del conformismo, come scrive Christian Rocca nel suo Sulle strade di Barney (Bompiani, pagg. 202, euro 10,50): un viaggio nel mondo di Mordecai Richler e del suo straordinario personaggio che nessuno saprà mai quanto sia autobiografico e quanto no. Rocca se l’è chiesto ed è l’unico dei trecentomila italiani che hanno letto la Versione ad aver cercato veramente una risposta: «Barney è l’autoritratto del suo autore o, forse, soltanto un aspetto della sua personalità. “Ero Barney mentre lo scrivevo”, diceva, “ma né prima, né dopo”. All’editore italiano rimproverava bonariamente di aver scelto la sua foto vera, per illustrare la copertina. Ma Adelphi ha fatto bene. Barney è Richler e lo sarà sempre».
È qui che si muove Rocca in un viaggio reale fatto in Canada a un anno dalla morte dello scrittore (avvenuta nel 2001) sui luoghi del libro e dell’autore, tra gli amici, i parenti, i conoscenti. Un viaggio, però, anche nel modo di vivere del personaggio e dello scrittore: la forza di essere se stesso fino al limite della maleducazione, di essere divertente anche quando sta per diventare sconveniente. Uno che il giorno del suo secondo matrimonio passa la serata a guardare la partita dei Canadiens e poi a inseguire una donna che non è quella appena sposata, ma quella che sposerà.
Barney è un eroe. Lo è per chiunque cerchi un personaggio autentico, che sbaglia, che odia, ma che sa essere romantico come pochi. Lo è per chi vorrebbe essere più schietto di quanto le convenzioni sociali lo obblighino a essere. È stato un eroe per il Foglio: quando il libro uscì in Italia lo adottò. A lungo, ogni giorno, pubblicò articoli su Barney e su Richler, lo prese come simbolo, come bandiera, come il più fogliante dei foglianti, creò un caso giornalistico che si trasformò in caso letterario con l’editore Adelphi all’inizio contrariato (come ha ricordato Pierluigi Battista sul Corriere) e poi felice dei risultati che la campagna del Foglio portò al libro.
Rocca racconta gli aneddoti di quei giorni, poi tutto quello che è accaduto dopo, quando in Canada ha conosciuto il mondo di Richler. Scrive: «Non ho mai incontrato Mordecai Richler, eppure mi sembra di averci fatto il militare insieme». È quello che pensa chi arriva alla fine della Versione. È quello che penserà chi uscirà dal cinema. Perché il film renderà Barney più popolare di prima. Il film, già.

Sarebbe piaciuto a Richler? A questo risponde il figlio Noah, che firma il poscritto del libro di Rocca: «Vorrei che fosse un bel film, proprio come avrebbe voluto mio padre, ma tanto tempo fa imparai da lui che sono i romanzi che contano e che durano nel tempo».

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