Il commento Gianfranco catechizza il Senatùr ma la predica è stonata

Quello che si è esibito sul pulpito di Chianciano Terme è un Fini in stato di poliedrica estasi mistica, uno straordinario Leopoldo Fregoli formato Caritas, che è riuscito a interpretare in pochi minuti i ruoli di un catechista, di Giorgio La Pira, Catone il Censore e Follini. Pare sia riuscito a fare anche Fini.
La sua performance più apprezzata è però consistita nell'omelia, con citazioni e pathos da Francisco Goya, contro Bossi che aveva giorni fa commesso il peccato di sostenere la totale liceità dell'eutanasia politica dicendo che «Fini è libero di suicidarsi come gli pare».
A Bossi e ai suoi ha fatto un predicozzo sui diritti e sui doveri collegandoli alla necessità di mostrare solidarietà e cristiana comprensione nei confronti degli immigrati.
E anche qui, si è immedesimato con tanta passione nel suo nuovo personaggio catto-comunista da confondere la cristiana solidarietà con l'accettazione dell'illegalità, l'amore verso il diverso con il disprezzo per i giusti diritti dei nostri, del nostro «prossimo più prossimo», che siamo noi, le nostre famiglie, i nostri vicini, i nostri concittadini.
Così facendo ha sbagliato completamente anche il bersaglio del suo sermone: il leghismo è la manifestazione politica di un territorio, la Padania, che ha altissimi tassi di solidarietà vera e concreta, dove ci sono più associazioni volontaristiche di assistenza, più organizzazioni caritatevoli che in ogni altra parte d'Italia e - quasi sicuramente - del mondo. Dove non si predica l'aiuto al prossimo, lo si fa. Dove magari gli extracomunitari e i terroni sono oggetto di barzellette ma dove - se serve metter mano al portafoglio o rimboccarsi le maniche per aiutarli - lo si fa, mugugnando e sacramentando, ma lo si fa perché si sente come un preciso dovere farlo. Basta dare una scorsa a un po' di statistiche raccolte sotto la voce «solidarietà» e si vedrà che questa è sempre la terra di Giovanni Bosco e di Francesca Cabrini.
Fini è un fine affabulatore, gioca con le parole, ci ricama sopra, si circonda di parole, le liscia e le accarezza, gli piace un mondo ascoltarsi. Ma ha finito per perdere il senso del concreto legame che c'è fra le cose e le parole che si impiegano convenzionalmente per indicarle. I diritti, i doveri, la solidarietà non sono solo voci di dizionario o tasselli delle sue dotte disquisizioni, sono segni concreti, a volte anche difficili e pesanti. Soprattutto non sono cose che riguardano solo gli altri, che si possono scaricare sugli altri.
Ha ragione Bossi: se gli piacciono tanto gli immigrati clandestini, se li porti a casa sua. Se ha tanta devozione per i doveri, pensi a quelli che ha nei confronti dei suoi elettori.

Se è davvero un apostolo dei diritti - senza i quali, ha sentenziato, c'è il suicidio della ragione - allora cominci a farsi concreto paladino di quelli di vivere sicuri, di non vedersi scavalcare nelle prestazioni sociali, di poter essere padroni a casa propria, nonché quello - più sacrosanto di tutti - di autodeterminazione, di stare, come diceva Miglio, «con chi si vuole e con chi ci vuole».
Naturalmente speriamo che lo faccia con senso di civile misura: non serve una fregoliana interpretazione di Fini leghista, anche se è ormai una delle poche che mancano al suo variegato repertorio artistico.

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