Il commento I giudici e il pasticcio del decreto fantasma

Un fantasma si aggira per l’Italia: il fantasma del decreto legge in materia elettorale adottato dal governo ed emanato dal capo dello Stato. Un fantasma perché prima della sua entrata in vigore è stato considerato, a seconda dei punti di vista, una promessa o una minaccia. E dopo non si è mai materializzato. In Lombardia, grazie a una pronuncia del Tar, tutto si è aggiustato nel migliore dei modi. A prescindere, per dirla con Totò, dal decreto. Mentre a Roma il decreto è stato bellamente disapplicato dal Tar del Lazio. Quasi che non fosse mai nato. Quasi che fosse un ufo, un oggetto piovuto da Marte e non identificato. Di qui a poco il Consiglio di Stato, al quale il Pdl si è appellato, metterà la parola fine a questo brutto pasticciaccio. Ed è interesse di tutti, anche di un’opposizione che prima ha dichiarato di non voler vincere a tavolino e poi ha detto peste e corna del decreto legge, che tra due interpretazioni possibili quella illiberale ceda il passo a quella liberale.
Nel frattempo siamo al teatro dell’assurdo. Con un’opposizione che in Parlamento si abbandona a un ostruzionismo puro e duro ma di corto respiro. Perché i regolamenti parlamentari, in omaggio alla cosiddetta democrazia decidente cara a Luciano Violante, non sono più allo sbando come una volta ma contengono disposizioni anti-ostruzionistiche di sicuro effetto. Come si è visto al Senato, che ha approvato in quattro e quattr’otto le norme sul legittimo impedimento. E che scende in piazza, per la gioia di chi intende circolare liberamente con qualsiasi mezzo di trasporto, per che cosa mai? Per un decreto che per la magistratura è come se non fosse mai entrato in vigore e vagolasse ancora nel limbo delle buone intenzioni.
Tutto per nulla, allora? Sì e no. Sì, per i motivi appena detti. No, perché il Pd sarà la prima vittima di tanta agitazione. Per cominciare, si è già spaccato a metà come un melone. Molti suoi esponenti non parteciperanno alla manifestazione romana di sabato. Formalmente per precedenti impegni, ma in sostanza perché temono di rimanere ostaggi dell’astuto Di Pietro. E chi ci metterà la faccia, come Bersani, si troverà tra l'incudine e il martello. Non riuscirà mai, assieme con quel perdente di successo che è Franceschini, a conciliare l'inconciliabile. Non si può al tempo stesso sostenere che il decreto legge, come certi personaggi dei western di Sergio Leone, è brutto sporco e cattivo. Affetto da incostituzionalità assoluta. E nel contempo assolvere Napolitano, che ha emanato il decreto perché non vi ha riscontrato palesi incostituzionalità.
Ma torniamo alla giustizia amministrativa. Il Tar del Lazio ha detto picche in quanto a suo avviso la legge elettorale della regione Lazio, nel momento in cui ha «recepito» la legge statale, l’ha fatta propria. L’ha regionalizzata. Con la conseguenza che un decreto legge non potrebbe invadere una competenza regionale. Ma un provvedimento interpretativo della legge statale, com’è questo decreto legge fa corpo con quella legislazione statale recepita dalla legge regionale.
C’è poi un secondo argomento che dovrebbe far breccia al Consiglio di Stato. Ed è questo. L’articolo 8 della legge elettorale della regione Lazio stabilisce che «in deroga a quanto previsto dall’articolo 9 della legge 108/1968» (guarda caso, proprio quella richiamata nelle premesse del decreto), non sono tenuti alla raccolta delle firme i partiti rappresentati da gruppi consiliari già presenti in Consiglio alla data di entrata in vigore della legge regionale. Una disposizione rimasta lettera morta in quanto nel 2005, quando fu approvata questa legge, non erano ancora nati i partiti di oggi: né il Pdl, né il Pd, eccetera. Ne consegue che l’articolo va letto al contrario: non in deroga, ma in applicazione della legge statale 108/1968, i nuovi partiti sono tenuti alla raccolta delle firme.

Ma se vale ancora questa legge statale, perché espressamente richiamata dalla legge regionale, vale anche il decreto legge interpretativo. Dal quale perciò il Consiglio di Stato non potrà prescindere.
paoloarmaroli@tin.it

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