Commento L’austerity? Non ha senso

Con l’emergere della crisi è tutto un fiorire di rievocazioni. E così impazzano i «ritorni a Keynes» ed i parallelismi con il ’29, ma egualmente si torna a parlare di quel lungo inverno che furono gli anni Settanta, in cui le difficoltà di un’economia globale incagliata coincisero con guai tutti italiani, causati dal trionfo dello Stato imprenditore.
Non deve stupire, allora, se a sinistra adesso si propone l’amarcord di una ricetta che non figura in alcun manuale di teoria economica, ma che furoreggiò in quel decennio, quando Enrico Berlinguer provò a riformulare in termini francescani la tradizione socialista e propose all’Italia la strada dell’austerità.
Peccato che, quale ipotesi per uscire dal guado, una nuova austerità non sia in grado di aiutarci. Perché delle due, l’una: o si tratta di una scelta individuale, che come tale va rispettata, ma allora non ha nulla a che fare con le decisioni che il governo è chiamato ad assumere; oppure è una sorta di presa d’atto che l’Italia non sa crescere e che neppure lo vuole.
L’austerity berlingueriana fu una sorta di keynesismo rovesciato, ma sempre di keynesismo in qualche maniera si trattò. Nella proposta era evidente l’idea che le opzioni soggettive (quella di chi consuma e di chi, all’opposto, risparmia) dovessero essere messe «sotto tutela», in nome di un interesse comune che dettava comportamenti sobri e la rinuncia non solo ad ogni spreco, ma anche a consumi considerati del tutto normali da quanti vivono in Occidente.
Dopo avere a lungo predicato che con la rivoluzione proletaria si avrebbe avuta la più ampia disponibilità dei beni, un comunismo un poco rattrappito su se stesso - e in qualche misura consapevole del proprio fallimento storico - individuava nella povertà di tanti Paesi dell’Est quasi un obiettivo da raggiungere. Venuta meno la stessa possibilità di superare il mercato quanto a capacità di produrre benessere per tutti, il socialismo si convertiva in anti-capitalismo, pronto ad inglobare ogni ideologia anti-moderna, respingendo la stessa idea che ci sia, o ci possa essere, un futuro tecnologicamente ed economicamente superiore al presente.
L’austerità, allora, non fu un progetto economico perché nasceva dal rigetto stesso dell’idea di sviluppo, crescita, innovazione. Per questo è impossibile sostenere che l’austerità sia una soluzione. Si devono certamente contestare quei keynesiani che vedono nei consumi la panacea di ogni male, ma è egualmente chiaro che se tutti smettessero di consumare verrebbe meno anche l’esigenza di produrre.
Sulla questione, in fondo, la prospettiva liberale è da sempre molto «laica», perché ritiene che le preferenze dei singoli siano soggettive e le loro decisioni debbano essere autonome. In una società libera vi è chi adotta uno stile frugale, e magari punta a risparmiare in vista di tempi peggiori; e vi è invece chi preferisce vivere nel presente. E su queste scelte è bene che il governo non metta becco.
C’è invece un’austerità certamente da adottare, se si vuole aiutare il futuro di quei ceti più deboli che dovrebbero stare a cuore alle forze progressiste. Ma questa austerità deve riguardare il settore pubblico, che va rapidamente ridimensionato.

La stessa possibilità per i privati di costituire capitale grazie al risparmio, e in virtù di uno stile di vita senza eccessi, è in larga misura connessa all’esistenza di uno Stato che non assorba più della metà delle risorse prodotte.
Se la sinistra chiede austerità, allora, inizi a proporla al settore pubblico e ai sindacati. Un po’ di austerità da quelle parti, infatti, può solo giovare al Paese nel suo insieme.

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