Il commento Il Pd come una squadra di calcio a caccia dello «straniero»

De minimis non curat praetor. A furia di prendere sotto gamba la sua Puglia, Massimo D’Alema rischia di buscarle di santa ragione. Si vede che, come i reazionari del tempo che fu, nulla ha imparato dall’esperienza.
Alle primarie per la candidatura a presidente della Regione, Nichi Vendola stracciò la volta scorsa il campione del centrosinistra. Ora le cose dovrebbero andare in maniera diversa. Ma quanta fatica, quanta perdita di tempo. E se anche stavolta la ciambella non riuscirà con il buco, addio Regione. Perché il bel fornaretto Pier Ferdinando Casini ha, sì, promesso l’appoggio dell’Udc. Ma a patto che Vendola si faccia da parte o sia sconfitto alle primarie.
In campo nazionale, invece, D’Alema è più attivo che mai. Ha sponsorizzato Pier Luigi Bersani alla segreteria del partito, e l’ha avuta vinta. Memore di aver perso la poltrona di Palazzo Chigi nell’aprile del 2000 per essere rimasto con un pugno di mosche per l’appunto alle elezioni regionali, ce la sta mettendo tutta per evitare un bis a dieci anni di distanza. La sua filosofia resta sempre la stessa. Numeri alla mano, ha buon gioco nel dimostrare che dal dopoguerra in poi la sinistra in Italia non ha mai conquistato da sola la maggioranza. Per battere gli odiati avversari, la sinistra deve andare oltre se stessa. Già, ma come? Elementare, Watson. Alla scuola di Depretis e dei suoi successori - senza dimenticare Cavour, artefice del Connubio con Rattazzi - deve darsi alla pratica del trasformismo.
Se n’è giovato proprio D’Alema per diventare presidente del Consiglio nell’ottobre del 1998. Senza passare per un voto popolare, come invece il sullodato marinaretto aveva promesso. Ma questa prassi il Pds la inaugurò due anni prima. Quando, dopo la Caporetto delle elezioni del 1994 provocata dalla strepitosa vittoria di Silvio Berlusconi, nel 1996 il candidato della coalizione di centrosinistra non fu un uomo dell’ex Pci. I cui dirigenti sono ancora considerati figli di un dio minore. No, il candidato fu un cattolico adulto, come lui stesso si definisce. Fu Romano Prodi, subito ribattezzato maschera di Baffino. Ma sì, di D’Alema. Così come fu sempre Prodi dieci anni dopo, nel 2006, a ottenere per la seconda volta la palma della vittoria. Sia pure striminzita e costata lacrime e sangue.
Affidandosi alla sapienza popolare, D’Alema deve aver pensato che non c’è due senza tre. Ecco che per rendere meno grave la sconfitta alle prossime elezioni regionali, il Pd è disposto a tutto: anche a sfidare, pensate, la forza di gravità. Non essendo capace di attrarre a sé forze politiche che per la loro dimensione possono considerarsi dei satelliti, è il pianeta Pd che si acconcia a subire la loro forza di attrazione. Ora, non è una novità che il Pd crede sempre meno alla sua vocazione maggioritaria, teorizzata e mal praticata da Walter Veltroni. E l’attuale oggetto del desiderio è soprattutto l’Udc. Un partito che vale il doppio se lo si sfila al centrodestra.
Dopo Prodi, Casini? Forse che sì, forse che no. Sta di fatto che Bersani, sotto l’esperta guida di D’Alema, non trova di meglio che iscriversi all’Avis, la benemerita associazione dei donatori di sangue. A dispetto della propria anemia, pur di allargare l’alleanza cede ben quattro candidati. Nel Lazio corre la radicale Emma Bonino. Mentre in Veneto, in Calabria e in Campania dovrebbero spuntarla tre esponenti dell’Udc: De Poli, Occhiuto e Trombetti.

Come gli esami per Eduardo, per Bersani le trasfusioni di sangue non finiscono mai. Più che a un partito, il Pd assomiglia a una squadra di calcio. A caccia di stranieri per andare a rete. Sì, ma a quale prezzo.
paoloarmaroli@tin.it

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