Il commento Perché la destra di Netanyahu non deve far paura

Oggi, nel solito clima febbricitante, Israele vota e già molti giornali nel mondo hanno pronto un coccodrillo per la pace, giudicando Netanyahu, il primo nei sondaggi, un pericolo pubblico. Un’idea primitiva e poco lungimirante, che è già diventata un ritornello. Le elezioni israeliane devono essere guardate senza spirito bigotto, perché la pace non sta, almeno in Medio Oriente, dove la si va a cercare, e i fatti lo hanno dimostrato senza equivoci.
I fatti di oggi: Netanyahu col Likud e Tzipi Livni con Kadima sono testa a testa; tutti e due hanno la chance di vincere. Ma i partiti di destra prenderanno la maggioranza, anche se non è detto che essa si trasformi in governo. Avigdor “Yvette” Lieberman, capo di Israel Beitenu, cavalcando in primis la minaccia arabo-israeliana, ha fatto a Bibi il pessimo scherzo di conquistare molto rapidamente una gran fetta di elettorato di destra portandogli via voti: questo disegna all’orizzonte sia una consistente coalizione di destra, sia però, in caso di qualche voto in più di Livni su Netanyahu, la possibilità che “Yvette”, laico e assistenzialista oltre che favorevole a concessioni territoriali, accetti una coalizione con Kadima. Barak, col partito laburista dovrebbe toccare i 16 seggi, ma anche Shas supererà i 10 seggi: quindi è possibile che si profilino all’orizzonte due coalizioni. E molti, mentre si va a votare, sono gli incerti.
Ma allarghiamo lo sguardo e cerchiamo di capire che cosa significhi per Israele votare: qui va alle urne l’unico Paese democratico in una selva di dittature, si cerca la certezza che il Primo ministro innanzitutto possa difendere il Paese. Lunedì scorso, una settimana dalle elezioni, l’Iran ha lanciato un satellite portato da un missile che potrebbe portare presto un carico atomico di una tonnellata, se è vero, come dicono gli esperti, che l’Iran ha ormai superato il punto di non ritorno verso la bomba. Gli ayatollah non fanno mistero della loro volontà di distruggere Israele, e Hamas, gli Hezbollah, Al Qaida promettono la stessa cosa. Hamas seguita a sparare missili, la Siria si ritira dai colloqui, il mondo segnala potentemente la propria incomprensione per la campagna di Gaza. Il sostegno americano può declinare con la presidenza di Obama, e Israele non sa se la nuova amministrazione porgerà più sostegno o più pressione. Nessuno, neppure la sinistra, è più convinta di trovare la panacea rispetto all’odio islamista nella linea tradizionale che consegna terra in cambio di pace ai palestinesi, ormai in gran parte preda dell’ideologia islamista: con Oslo tutte le città palestinesi furono sgomberate ponendo il 98 per cento dei palestinesi sotto Arafat solo per arrivare alla terribile Intifada delle Moschee, che ha fatto quasi 1500 morti israeliani per terrorismo. Lo sgombero unilaterale di Gaza ha portato alla pioggia di qassam; lo sgombero del 2000 del sud del Libano ha aperto la porta alle armi degli Hezbollah per la guerra. Il prossimo Primo ministro è quello che potrebbe ricevere alle tre di mattina la fatidica telefonata che chiede che fare di fronte a un attacco micidiale.
Chi vorreste che rispondesse, si chiede il cittadino di Israele che nel frattempo chiede pulizia morale dopo le accuse di corruzione, chiede che la sua vibrante democrazia, la sua libertà estrema, il suo futuro nel campo dell’high tech, della scienza, dell’arte, e vuole anche un benessere eroso dalla guerra continua e dalle crisi internazionale. Netanyahu, quando fu primo ministro nel ’96 lasciò Hebron, strinse la mano ad Arafat, a Wye Plantation firmò concessioni. Oggi ripete che non vuole dominare un singolo palestinese e che però non vuole fare prima del tempo concessioni che possano diventare rampe di lancio per missili. La questione degli insediamenti non la affronta diversamente dagli altri candidati, e nella situazione che abbiamo descritto non vuole fare passi falsi. La sua fama di duro è forse legata al famoso motto «Itnu Icablu», se daranno riceveranno, che stabiliva un limite alle concessioni territoriali senza contropartita nella lotta al terrorismo; ai suoi preveggenti, conturbanti libri sul terrore internazionale; alla sua appartenenza alla Sayeret Matchal, un’unità speciale che spesso ha compiuto azioni impossibili di salvataggio dal terrorismo e di cui anche Ehud Barak era parte; alla sua parentela con Yoni, il comandante dell’unità che salvò gli ostaggi di Entebbe e che là perse la vita.
Se Bibi sarà primo ministro, Gerusalemme dovrà imparare a comunicare meglio di quanto faccia.

L’Europa ha sempre mal sopportato che Israele sia costretta a indossare spesso gli abiti del combattente, e non riesce mai e poi mai a vedere che il ruolo della volontà israeliana nei processi di pace, non può niente se la controparte non c’è. E che oggi, chi vince dovrà cercarla in una selva sempre più oscura.
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