Il commento/Il pm furioso fa male alla giustizia

Se pure la vicenda del neoministro Aldo Brancher sembra esser nata male e proseguita peggio, in forza di una serie di errori commessi dalla maggioranza di governo (che sembra essere bravissima a studiare di notte come farsi poi male di giorno), al di là del merito della questione, è possibile avanzare un’osservazione di metodo, ma non in senso soltanto formale.
Alludo alle scene televisivamente trasmesse in cui il pubblico ministero d’udienza, Eugenio Fusco, commentando pubblicamente le richieste originarie di Brancher, non solo le stigmatizza in quanto infondate dal punto di vista del legittimo impedimento, ma fa qualcosa di più. In particolare, a tutti è stato possibile osservare un pubblico ministero furibondo che, davanti a un tribunale impassibile, si agitava assai, gridando e protestando perché - così egli asseriva e così riporta la stampa - «si sentiva preso in giro».
Ora, va benissimo che un magistrato incaricato della pubblica accusa possa anche irritarsi in vista dell’atteggiamento assunto dall’imputato che abbia scelto una determinata strategia difensiva e perciò possa manifestare all’esterno tale stato d’animo. E, tuttavia, non si potrà negare come invece l’esercizio della giurisdizione - alla quale anche i magistrati della pubblica accusa partecipano - debba ispirarsi a una necessaria sobrietà di comportamento che in linea di principio dovrebbe condurre a escludere il superamento di certi limiti.
Il magistrato dovrebbe sempre e in ogni circostanza restare, se non impassibile, certamente ispirato a un contegno di indifferenza rispetto al caso di volta in volta trattato. Si badi. Indifferenza non vuol dire mancanza di passione professionale, tutt’altro: la misura dell’attaccamento alla professione giudiziaria sta proprio nella capacità di dominare le emozioni e di mostrarsi sempre, davanti ai destinatari della funzione esercitata, come una persona dotata di equilibrio e che non indulge perciò pubblicamente ad alcuna manifestazione di sentimenti quali rabbia, frustrazione, soddisfazione, eccetera.
In altri termini, è oggi da ribadire con forza la profonda verità racchiusa nel brocardo caro ai vecchi giuristi, secondo il quale cultus iustitiae silentium. Ciò altro non significa se non che chi amministra la giustizia (e perciò anche i pubblici ministeri i quali, pur non decidendo, concorrono alla decisione) deve esercitare tale delicatissimo compito privilegiando, rispetto agli schiamazzi, alla pur naturale tempesta dei sentimenti, alle inevitabili irritazioni, l’accortezza del tono sobrio ed equilibrato, della parola misurata, della disciplina e dell’autodisciplina personali. Si fa forse qui riferimento alla antica e nobile - e oggi forse fuori moda - gravità della funzione, che deve essere modulata su tali indicazioni? E perché no? Perché non tornare ai costumi più nobili ai quali veniva ispirata la funzione giudiziaria in virtù di una tradizione consolidata e che poteva perfino apparire cromosomicamente tramandata?
Farsi preda pubblicamente della tempesta dei sentimenti - come è accaduto a Fusco -, se è umanamente comprensibile, non sembra allora professionalmente consigliabile e giustificabile, anche perché finisce inevitabilmente con il generare nell’opinione pubblica un sottile senso d’inquietudine. Ed è l’inquietudine che nasce dal timore che un magistrato che non sia in grado di controllare i propri sentimenti, esternandoli pubblicamente, se ne lasci poi in qualche modo condizionare nel momento delle scelte e delle decisioni sul merito della causa.
Si è portati allora a sospettare che la questione possa essere personalizzata: e non c’è nulla di peggio e più esiziale per la credibilità dell’amministrazione della giustizia. Sono certo che Fusco non cadrà in questo tranello, essendo dotato di sufficiente spirito critico e autocritico; ma allora, a maggior ragione, perché affermare di sentirsi «preso in giro»? Un magistrato non può mai sentirsi preso in giro per il semplice motivo che qualunque cosa accada, qualunque sia il comportamento delle parti, egli si riferisce sempre e comunque alla signoria della legge e giudicherà perciò quei comportamenti secondo il metro di questa (di volta in volta, rigettando o ammettendo le istanze delle parti) e non secondo quello personale (arrabbiandosi o, a seconda dei casi, rallegrandosi).


Ecco perché Gorgia - il progenitore dell’oratoria giudiziaria - poteva affermare che «chi si fa ingannare è più saggio di chi non si fa ingannare». Perché sapeva come la vera saggezza non sta nel gridare all’inganno, ma nel saperne trarre le conseguenze: in silenzio.

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