Il commissario e la toga: la guerra tra due donne a colpi di verità opposte

Milano Giorgia e Annamaria, donne contro. Una giovane, graziosa, single. Una matura, madre di famiglia, non lontana dalla pensione. Non si sono mai viste in faccia. Fino al 27 maggio di quest’anno, ignoravano l’esistenza una dell’altra. Oggi si trovano a combattere una battaglia fatta di verità inconciliabili. Una delle due mente. C’è chi tifa per Giorgia e chi per Annamaria. Spuntano indizi ora a favore dell’una, ora a favore dell’altra. Dal punto di vista giudiziario, l’inchiesta sull’episodio che le ha viste protagoniste sembrava chiuso, e invece forse si riaprirà per iniziativa del Csm e della Cassazione. Eppure fin da ora si può avere una certezza: la verità, quella vera, non si saprà mai. Alla fine di tutto resterà la parola di Giorgia contro quella di Annamaria, sul punto che da due settimane agita le prime pagine: chi consentì che Ruby Rubacuori, cubista minorenne, evitasse di finire in una comunità di accoglienza, dopo che per lei si era speso in prima persona il presidente del Consiglio?
Giorgia è Giorgia Iafrate, trent’anni, commissario di polizia. Annamaria è Annamaria Fiorillo, cinquantasette anni, magistrato. La Iafrate è di Frosinone, la Fiorillo di Gallarate. Donne che lavorano e che fanno i turni di notte. A Milano Giorgia è in questura, all’ufficio delle Volanti, il primo incarico dopo avere vinto il concorso in polizia. Annamaria alla Procura dei minori, e anche per lei è il primo ufficio dove è stata destinata nel 2000 dopo avere vinto il concorso da magistrato: un concorso vinto in età non più verde, dopo diciassette anni spesi a insegnare diritto ai ragazzi delle medie. Il destino le ha messe di turno entrambe, quel dannato giovedì sera, entrambe a fare i conti con i cento allarmi che la metropoli produce. E le loro vite sono entrate in rotta di collisione.
Oggi Annamaria nega di avere dato via libera a Giorgia perché consegnasse «Ruby» alla consigliera Minetti, e aggiunge pennellate di colore: «Lei al telefono era tutta irrigidita, parlava come se recitasse un copione. Era combattuta, lacerata e infatti alla fine quel verbale non l’ha firmato». In una intervista al Messaggero, Giorgia ribatte brusca che il consenso ci fu: «Evidentemente la dottoressa ricorda male. Io, invece, ricordo benissimo e non cambio una virgola di quanto già detto. Ho semplicemente seguito la prassi. Come ogni notte», e spiega di non avere firmato il verbale semplicemente perché lei era il capoturno, e i verbali li firmano gli equipaggi.

Chi mente, chi dice il vero? E chi mente lo fa in malafede, perché si è reso conto di avere sbagliato, o forse ricorda male, capì male, si espresse male, aveva sonno? Insomma, siamo davanti a una menzogna o a un colossale malinteso? Ah, saperlo. Forse avevano ragione i pubblici ministeri di una volta, che quando erano di turno e gli arrivava una chiamata della polizia, ad ogni buon conto attaccavano il registratore.

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