da Como
Era lunico modo per riaverla. Ucciderla, uccidersi e stare insieme per sempre. Era una tragedia annunciata, quella di Adalgisa e Achille. E la fine, quando il sipario del mistero si è alzato, lhanno vista prima i giornalisti dei carabinieri. Lei, morta, su un letto di un vecchio casotto di uno skilift abbandonato sul Monte Spluga. Lui, con un foro di proiettile in testa, sdraiato sopra di lei.
Adalgisa Montini, 37 anni, voleva fuggire allamore malato del suo ex marito. Achille Martinoni, 45 anni, era ossessionato da lei. Viveva solo per riaverla indietro. Lo aveva detto, al suo datore di lavoro: «Uno di questi giorni la combino grossa». Un chiodo fisso, nella testa di questuomo di poche parole cresciuto tra le mandrie e i boschi, ma incapace di gestire i rapporti con le persone. Quando la moglie lo aveva lasciato, non si era rassegnato. La rivoleva indietro. A qualunque costo. Ha iniziato a cercarla, ma lei non ne voleva sapere. Lamore era finito e, secondo la sorella Aurora, non era mai iniziato. «Lei era rimasta incinta e si era sposata solo per il bene della figlia», aveva detto quindici giorni fa quando, a Catasco di Garzeno, un paesino sul costone delle montagne che vanno dal Comasco al Canton Ticino, era scoppiato il giallo. Non si trovava più lui, uomo dai mille lavori, ma sempre allaria aperta. Non si trovava più lei, operaia in una fabbrica della zona. Non si trovava più la calibro 7.65. Ma il foro di proiettile si è trovato subito. Ha trapassato la Fiat 600 gialla di lei, trovata piena di sangue nel garage della villetta dove viveva, sola, con la figlia di 15 anni. La sorella aveva gli occhi spenti di chi sa già comera andata a finire. E aveva paura, Aurora; paura che il cognato fosse ancora vivo e pronto a tornare per uccidere il resto della famiglia. Almeno in questo sbagliava. I carabinieri, lo hanno cercato dappertutto, Achille. Fino a quando, sul Monte Spluga, non hanno trovato la sua Alfa 146 rossa. Niente sangue, sulla macchina. Ma almeno una traccia per cominciare le ricerche. Achille era un uomo di montagna. Boscaiolo, vaccaro, ex alpino, quelle zone le conosceva come le sue tasche. E i carabinieri cercavano a vuoto. Non aiutava neppure il bigliettino, scritto con troppi errori di ortografia e le doppie al posto sbagliato, che Achille aveva lasciato alla figlia: «Ho dovuto farlo. Tua madre mi ha rovinato la vita. Se un giorno ti sposerai, non fare i suoi stessi errori. Me ne vado ma tornerò. Non preoccuparti tua mamma sta bene». Un filo di speranza, smentito alla riga successiva: «Non ti disperare perché a te ci penserà lo zio Giacomo».
Destino ha voluto che proprio lo zio Giacomo, insieme al cugino Camillo, abbia trovato i corpi. Mentre i carabinieri si sono convinti che sul Monte Spluga non ci fosse proprio più niente da cercare, i parenti hanno insistito. E proprio loro, con le telecamere di Chi lha visto? e il fotografo milanese Stefano Cavicchi, si sono accorti di quella vecchia baracca vicino allo skilift in disuso. «Appena entrati non abbiamo notato nulla. Poi ci siamo accorti del soppalco. Loro sono saliti e hanno iniziato a gridare Ci sono. Ci sono».
I carabinieri sono arrivati dopo. E sono stati investiti delle parole della disperazione. «I parenti li hanno incolpati di non averli cercati abbastanza», dice il fotografo. Ora che cè la fine della tragedia, bisogna capire cosè successo negli atti precedenti. Se Achille ha ucciso la moglie o lha solo ferita dopo averla affrontata in paese e con quanti colpi di pistola lha colpita. Se voleva rapirla, per vivere con lei in montagna, come sembrerebbe dal biglietto, oppure se avesse già in mente di ucciderla e di suicidarsi.
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