Il compromesso antistorico di Napolitano

Tutti gli osservatori politici, o almeno la stragrande maggioranza – stando ai dispacci d’agenzia – hanno fatto sfoggio d’uso di mondo e di galateo salutando il discorso agli italiani di Giorgio Napolitano con sentenziosi apprezzamenti. Successo bipartisan, dicono, e quel servo muto che è Auditel testimonia che ben 13 milioni di connazionali hanno seguito il primo messaggio di fine anno del Presidente, apprezzandone, s’immagina, l’eloquio chiaro e diretto e l’esortazione alla speranza. In questo clima di generale soddisfazione, di augurale letizia e di diffusi «mi rallegro» comporta un certo interiore disagio proporre una lettura per così dire eretica del verbo presidenziale, ma il lavoro ingrato qualcuno deve pur farlo: per completezza, per obbligo d’istituto o, se si vuole, per tigna.
E allora diciamolo. Il discorso del capo dello Stato è stato freddamente politico, mirato e calibrato, anche se alleggerito con i richiami ai bambini – che napoletanamente sono piezz’e core – e all’indispensabile valore dell’emisfero femminile. Due punti del messaggio ci sembrano particolarmente significativi e strategicamente concordanti: l’esaltazione del dialogo e la sintonia con Santa Romana Chiesa. Giorgio Napolitano sente che i temi etici, dai Pacs all’eutanasia, dalla concezione della vita e della famiglia alle frontiere ultime della scienza rischiano, prima ancora di creare una frattura nel Paese - che è antico e tollerante – di far saltare il governo. Propone quindi la terapia lenitiva e palliativa del dialogo a oltranza, dialogo a ben vedere insensato dato che gli interlocutori muovono da premesse assolutamente inconciliabili e da capisaldi ideologici indisponibili alla resa. Anche sul dialogo bisogna intenderci. La democrazia vive di contrapposizioni che si pesano e si misurano nei Parlamenti, non di cinguettii inconcludenti fra urlatori sordi. Il dibattito, non il dialogo è il perno della democrazia.
Nel capitolo del dialogo va iscritta l’esortazione agli italiani a non diffidare dalla politica. Ma gli ultimi, concordanti rilevamenti demoscopici non dicono che la maggioranza degli italiani diffidano della politica, spiegano invece che gli stessi italiani diffidano dell’attuale governo. Si ha, allora, il sospetto che Napolitano non sia intervenuto per difendere la politica come categoria della partecipazione civile, ma il governo, subissato di critiche.
La proclamata sintonia con la Chiesa tende, da una parte, a rassicurare le gerarchie vaticane, dall’altra a indicare alla sinistra radicale, fin qui «domina» del governo, a limitare le sue asprezze ideologiche. La Chiesa – questo il messaggio di Napolitano – non dovrà considerare il governo Prodi alla stregua del governo Zapatero, ma il governo dell’Unione dovrà rinunciare a certe soluzioni rivoluzionarie che hanno soltanto un valore d’immagine e di caratterizzazione ideologica, posto che riguardano una frazione infinitesimale della popolazione.
Può sembrare una bestemmia, ma ognuno è figlio del suo tempo: Giorgio Napolitano, coerente con le sue origini e la sua formazione, ripropone il compromesso storico come grande fattore soporifero ed emolliente della vita italiana.
È il passato che ritorna, ancora una volta. I cattolici di sinistra sarebbero d’accordo, la sinistra, anche quella radicale, sarebbe disposta a sacrificare i Pacs sull’altare del potere.

Romano Prodi, dossettiano di ferro, è disponibile a capeggiare la maggioranza che non ha. Ed è felice quando i giornali amici parlano di lui come «dittatore moderato». Tutti contenti, tranne gli italiani. Ma cosa volete che contino fra i democratici del dialogo?

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