Il «comunista sfegatato» che ama sfilare in piazza

I suoi anni a Reggio Calabria tra consulenze e manifestazioni

Felice Manti

da Milano

La scelta del rettore «scapigliato» come ministro dei Trasporti viene promossa con 30 e lode dai calabresi dell’Unione, mentre i suoi «nemici» tacciono. L’urbanista romano, a Reggio Calabria dall’87, ci ha messo un po’ a capire l’atmosfera della città. «Fino a dieci anni fa questa era un posto buio, anche in senso letterale», aveva confessato qualche tempo fa a un giornalista. Per lui Reggio «era una città che chiudeva alle otto di sera, nella quale l’unico posto di una certa salubrità era l’albergo». Erano anni difficili, con le cosche della ’ndrangheta in guerra e un centinaio di morti l’anno.
Amante di Le Corbusier, avrebbe voluto fare di Reggio una piccola Barcellona. Ma si sa, tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, lo Stretto di Messina e quel ponte contro il quale è arrivato addirittura a marciare, a, fine 2004, a fianco di movimenti spontanei, ambientalisti e partiti dell’ultrasinistra. Le grandi opere in realtà non gli dispiacciono, anzi. Basta guardare gli alloggi per gli studenti della sua università che ha contribuito a far costruire, due «cubi» vicino all’autostrada che a Barcellona nessuno invidia.
Amante della politica movimentista, si è autodefinito un comunista «sfegatato». La sua storia lo conferma: iscritto nel Pci fino alla Bolognina, l’anno scorso ha fondato Progetto Calabrie, definito in città «il partito dei professori» e nato come coscienza critica della sinistra. Lui e i suoi fedeli docenti, dopo qualche schermaglia sulle primarie per le prossime elezioni provinciali, sono stati ammansiti a suon di consulenze. Il potente assessore regionale del Pdci, Michelangelo Tripodi, non ha avuto alcuna difficoltà, una volta insediato in Regione, a far avere al neoministro un incarico da 100mila euro per riscrivere il Piano urbanistico regionale, un progetto da svariati milioni di euro.
E quando Marco Minniti, dalemiano di ferro, appena eletto sottosegretario all’Interno e plenipotenziario ds in Calabria, ha detto no alla sua candidatura nel listone dell’Ulivo, il soccorso rosso dei comunisti italiani è stato immediato. È stato candidato al Senato con la lista Pdci-Verdi, senza dimettersi dall’incarico di rettore, e sostenuto con poca fortuna dall’intellighentia reggina. La sua campagna elettorale, che ha fruttato alla lista più di 40mila voti, è stata fatta «in contumacia» per la delusione dei tantissimi studenti che avevano creduto in quel progetto politico. «Sono a Roma, se vinco vengo giù», ha confidato ai suoi collaboratori, in una di quelle tante e-mail dell’Università spedite ai «suoi» docenti e piene di proclami politici e volantini elettorali. I suoi detrattori lo accusano di aver gestito l’ateneo reggino con grande disinvoltura, ma nessuno per il momento osa affrontare a viso aperto il neoministro.
«La sua dichiarazione sul Ponte non mi ha affatto sorpreso», ci dice uno dei suoi uomini. Bianchi ama le frasi a effetto, specie pronunciate in un buon inglese tradito da uno spiccato accento romano. Come quell’«absolutely not» contro il Ponte sussurrato nel giorno del giuramento da ministro.

Frasi e scelte dettate dalla voglia di conquistare le prime pagine dei giornali, una ricerca di riflettori pari quasi al suo vezzo di andare spesso dal barbiere (qualcuno dice tutti i giorni) a farsi sistemare quella chioma bianca della quale va fiero. E così si può spiegare anche la scelta di dare la laurea honoris causa a Umberto Eco e al regista Francesco Rosi. Guarda caso il regista di Le mani sulla città.

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