Il concetto di egemonia non è liberale

Gramsci era un pensatore totalitario. La sua teoria è che il potere debba generare consenso dando a esso fondamento culturale

Il concetto di egemonia non è liberale

Citare Gramsci è un omaggio culturale alla sinistra, un atto di gentilezza in cui il ministro dei Beni culturali Sandro Bondi eccelle.
Pensare che il concetto di egemonia di Gramsci consista nel dire che «l’agire politico sta nella diffusione delle idee nella società civile» è un uso ben modesto del concetto gramsciano come lo espone Lucia Annunziata. Nella città delle immagini e delle tecnologie, le visioni del mondo non hanno più corso, la filosofia politica è morta e l’egemonia si è frantumata.

Avviene in tutte le aree politiche italiane. Per definire un pensatore politico cattolico occorre ritrovare Augusto Del Noce, per un pensatore di destra Giovanni Gentile. E non si vede in che cosa le loro idee abbiano significato nella politica di oggi.
L’egemonia gramsciana è tutt’altro che un concetto liberale, se prendiamo per liberalismo il riferimento culturale più adatto alla forza politica creata da Silvio Berlusconi.

Gramsci non è certo un filosofo della persona umana di ispirazione cattolica, è un pensatore comunista che ha visto sempre in Lenin l’autore della «rivoluzione contro il Capitale» di Marx. È cioè un pensatore totalitario, legato all’idea globale di rivoluzione che comprende tutte le aree del pensiero ma soprattutto quella del potere. La sua teoria è che il potere debba generare consenso, ma usando i mezzi del potere e dando ad essi un fondamento teorico e culturale.

Possiamo ricordare con simpatia la vita di Gramsci in carcere e la sua morte solitaria che ci ha rievocato Sandro Pertini. Il Partito comunista d’Italia lo aveva isolato perché egli aveva sostenuto Zinoviev e Bukarin nella polemica contro Stalin. Era favorevole al concetto di Lenin sull’imposizione del comunismo alla società russa ma ben contrario alla violenza contro i membri del partito.

Questi erano per lui una piccola setta gnostica che condivideva il senso della storia. La loro figura ideale impediva che venisse usata contro di essi la medesima coercizione adoperata contro i cittadini comuni: una bella distinzione gnostica tra i perfetti e i semplici, tra i predestinati e gli annessi soggiogati. Sia il monopolio della conoscenza degli eletti, sia l’uso della forza contro il popolo comune sono principi che Gramsci usa, il senso in cui egli è un pensatore rivoluzionario.

La rivoluzione in Occidente, dai giacobini in poi, ha voluto sempre significare totalità culturale e politica, teorica e pratica, partitica ed istituzionale a tutti i livelli.

L’egemonia è una parte del potere, non una precondizione di essa. E l’egemonia in Italia l’abbiamo ben conosciuta perché i comunisti hanno capito l’importanza della cultura che i democristiani avevano rifiutato: anche un liberale come Scelba parlava di «culturame».
Chi tra i cattolici aveva compreso il valore della cultura, anche letteraria, era il fondatore dei Comitati civici, l’uomo che vinse il 18 aprile del 1948 le elezioni politiche, Luigi Gedda, un uomo che conosceva il valore della cultura per cementare il consenso, una lezione che la Dc non comprese.

Il Partito comunista italiano vinse la battaglia sul piano culturale usando il concetto gramsciano di cultura nazionale.

E la vinse usando il potere politico acquisito nelle istituzioni democratiche per selezionare gli intellettuali da proteggere e promuovere nella burocrazia, nella cultura accademica e scolastica, nella magistratura e nell’università. Gramsci è una splendida figura, ma è un cattivo maestro. Anche la sinistra postcomunista oggi lo sa.

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