Le condizioni di Israele per trattare con Hamas

«Nessun voto può legittimare una formazione terroristica»

Luciano Gulli

nostro inviato

a Gerusalemme

Dicono che sabato sera, quando ha chiuso l’ultima delle telefonate in programma, Ehud Olmert avesse un’aria più rinfrancata. Con Chirac, con Kofi Annan e Tony Blair non c’è stato bisogno di tante parole. Col presidente egiziano Mubarak e con re Abdallah di Giordania la conversazione è andata un po’ più per le lunghe. Soprattutto con Mubarak, che non avrebbe nascosto le sue preoccupazioni, dicono a Gerusalemme, per la travolgente avanzata di Hamas e il conseguente effetto corroborante che il successo degli integralisti palestinesi avrà sui loro «Fratelli musulmani» d’Egitto. Ma anche con Abdallah e Mubarak Olmert ha filato il perfetto accordo.
Sicché, aprendo la consueta seduta domenicale del governo, e con il viatico ottenuto da Egitto e Giordania, il premier ad interim ha potuto ribadire i tre punti irrinunciabili di Israele per avviare qualsiasi colloquio con un governo palestinese guidato da Hamas. Rinuncia al terrorismo, riconoscimento del diritto di Israele alla sicurezza e alla pace, e rispetto di tutti gli accordi, le intese e gli impegni sottoscritti fin qui dall’Autorità palestinese. Inclusa naturalmente la cancellazione del manifesto di Hamas che chiede la distruzione di Israele.
«Questi principi - ha affermato Olmert - sono accettati dalla comunità internazionale e sulla questione non intendo scendere a compromessi».
Alle dichiarazioni di principio di Olmert ha aggiunto il suo carico da undici il ministro della Difesa Shaul Mofaz, spiegando (ove non fossero state sufficientemente chiare le sue affermazioni di sabato) che Israele continuerà nella sua politica di «omicidi mirati» nei confronti dei leader di quei gruppi armati che attentano alla sicurezza di Israele. «Inclusi i rappresentanti eletti di Hamas». Insomma, per dirla con le parole del ministro degli Esteri Tzipi Livni: non ci sono elezioni, anche se celebratesi in maniera democratica, che possano garantire legittimità a un’organizzazione terroristica.
Sul tappeto resta la questione del trasferimento dei dazi doganali che Israele raccoglie sulle merci in transito verso Gaza e i Territori, e che mensilmente rimette all’Anp. Dar corso alla pratica come se nulla fosse accaduto, o rivedere di sana pianta l’accordo? Sul punto, il governo israeliano è diviso. Mofaz e i servizi di sicurezza ritengono sia più saggio mantenere in vigore gli accordi. Senza quei denari (50 milioni di dollari che dovrebbero essere versati nelle casse palestinesi entro mercoledì) l’Autorità palestinese non avrebbe di che pagare gli oltre 130mila stipendi dei suoi iscritti a libro paga. Il che obbligherebbe Israele, in qualche modo, ad affrontare colossali problemi di ordine pubblico. E in ultima analisi, a mettere comunque mano alla borsa. Altri invece sostengono che i denari versati finirebbero nelle tasche di Hamas e verrebbero usati per rafforzare l’arsenale di cui già dispone il braccio armato del movimento.
Sul punto, il premier ad interim non ha ancora deciso. Anche se fonti governative, citate dal quotidiano Haaretz, sostengono che, appartenendo quei denari di diritto ai palestinesi, non si vede come si potrebbe non onorare gli impegni. Ma anche a questa osservazione, gli specialisti della divisione del capello in quattro sanno come rispondere. «L’impegno di trasferire i fondi relatvi ai dazi riscossi da Israele per conto dei palestinesi - fa notare un alto funzionario del ministero degli Esteri - era stato preso col ministro delle Finanze Salam Fayad. E poiché Fayad ha rassegnato le dimissioni dall’incarico, l’accordo non è più valido». Ma sono questioni di lana caprina, come ognuno capisce, suscettibili solo di alzare la tensione in un momento in cui occorrerebbe invece tenere i nervi saldi e attendere le prossime mosse di Hamas, che ha bisogno di tempo per digerire la sbornia elettorale e decidere che fare, ovvero come spendere la formidabile opportunità offertagli dagli elettori.
Contrario al «bonifico» è naturalmente il capo del Likud, Benyamin Netanyahu, che spinge per il blocco dei fondi e contesta la «debolezza» di Olmert sull’argomento. Anche Silvan Shalom, ministro degli Esteri fino a qualche settimana fa, quando Netanyahu ordinò ai ministri del Likud di uscire dal governo, si è detto contrario all’idea di «foraggiare i terroristi».

Se Israele dà seguito al trasferimento dei soldi, «anche gli Stati Uniti continueranno a elargire sovvenzioni ad Hamas. Col risultato - sostiene Shalom - che avremo un nemico militarmente anche più agguerrito di quanto già non sia».

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