Le confessioni di Haring L’arte di parlare alla gente fregandosene del sistema

Keith Haring è morto vent’anni fa - il 16 febbraio 1990 - ma il suo mito è rimasto intatto per le giovani generazioni, anzi è cresciuto nel tempo proprio come lui sperava e si augurava. Fosse cresciuto, fosse invecchiato, sarebbe diventato probabilmente il nuovo Andy Warhol. Aveva le idee molto chiare su come trasformarsi in un artista di successo senza tradire lo spirito ribelle dei vecchi tempi, e guadagnare molti soldi non lo faceva sentire in colpa più di tanto.
Con la pubblicazione dei suoi Diari sembrava che tutto fosse stato detto e scritto. Invece, sembra una discografia postuma, esce sempre qualche inedito, delle b-side degne di attenzione per fan e non. Esce in questi giorni Keith Haring. L’ultima intervista (Abscondita, pagg. 128, euro 13,50), prezioso volumetto che in realtà ne contiene tre, oltre a un buon apparato fotografico e un articolo di Fernanda Pivano pubblicato per la mostra alla Triennale di Milano nel 2005.
Interessante è soprattutto il secondo colloquio apparso su Rolling Stone nel 1989. Qui Haring sottolinea la necessità del rapporto dell’artista con il pubblico, in particolare con giovani e bambini che si accostano alla sua opera senza pregiudizi né censure. Lavoratore inesausto, soprattutto nell’ultimo periodo della sua vita quando sente che il tempo comincia a non bastargli più, quando Keith racconta è come se parlasse già al passato dei suoi vent’anni: la folgorazione davanti ai quadri di Alechinsky e Dubuffet, le installazioni di Christo, la prima mostra arrivata per caso, per un «buco» di programmazione all’Arts and Craft Center di Pittsburgh, i disegni clandestini nei bassifondi della metropolitana, la sperimentazione del cut-up burroughsiano, metodo di accostamento di cose diverse che dà sempre significati altrettanto diversi. Poi la fuga dalla famiglia, la consapevolezza della propria omosessualità, l’attrazione per la droga. La Golden Age degli anni Ottanta è alle spalle, e con lei il clima effervescente dell’East Village, la grande mostra a Times Square, la prima personale in una grande galleria, Tony Shafrazi, che lo toglie dalla strada per proiettarlo verso il successo.
Impensabile non toccare, nell’intervista, questo tema: come ci si sente a passare dall’underground al mainstream? Haring risponde sempre con una punta di malcelato orgoglio, sta spesso sulla difensiva, segno che certe accuse gli fanno male, che le critiche lo feriscono, in particolare quella di Robert Hughes, il grande accusatore della Graffiti Art, che dopo aver definito Basquiat «l’Eddie Murphy della pittura» lo liquida come un fenomeno passeggero di moda. Keith insiste sulla figura di Warhol, mentre glissa sull’amico rivale Jean-Michel. Definisce Andy «dolce, generoso, semplice, gentile; facile stare con lui».
Seguendolo abitualmente nelle feste gli capita di incontrare Michael Jackson, Yoko Ono, Bob Dylan e Iggy Pop, i suoi miti in carne e ossa. Poi il dialogo slitta inevitabilmente sull’Aids, spettro di un’intera generazione, autentica pestilenza che ha già mietuto tante vittime, tra cui il compagno Juan Dubose. Fin da giovane «Ti prepari a morire in questo modo assurdo», additato dai benpensanti che ti giudicano colpevole di essertela cercata. Haring non fa mistero della sua sieropositività, anzi sostiene che parlarne può servire almeno a rompere il tabù, a differenza del silenzio che si era imposto Rock Hudson, prima vittima celebre. Persino la famiglia, conservatrice e provinciale, gli si riavvicina quasi a proteggerlo. Mentre la malattia incalza talora pensa al suicidio perché lo terrorizza il logoramento del corpo e teme di non avere più la forza di lavorare. «Mi aspettavo di morire giovane», ribadisce: per questo è idolatrato come una rockstar che ha preferito bruciarsi in fretta piuttosto che consumarsi lentamente.
L’ultima vera intervista è datata 27 gennaio 1990. Gli restano poche settimane di vita. Un incontro rimandato più volte, perché Keith è stanco, esausto. Eppure parla di progetti, di cose da fare che non potrà fare, proprio quello che diceva Derek Jarman nel suo ultimo film Blu, un impossibile futuro davanti a sé. Alle domande del giovane Jason Rubell, figlio dei noti collezionisti, Haring sottolinea la propria idea romantica dell’artista che deve parlare al popolo fregandosene del sistema che lo considera poco. «Sono sempre quello della metropolitana, nonostante il successo», il ragazzino impertinente, magro, pallido, con gli occhiali, poco sex appeal e un’energia senza pari.

Un solo rimpianto, non essere riuscito a disegnare sulla sabbia, nel deserto. «Disegni come quelli nelle Ande. Li saprei fare bene. E un parco giochi per bambini. Ho dato vita a una fondazione che avrà abbastanza denaro per costruirlo. È un dono che voglio fare a tutti i bambini di New York».

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