Economia

Confindustria? Un relitto Adesso vada in pensione

Strutture così enormi sono ormai utili solo a chi ci spadroneggia sopra. L’ex presidente D’Amato voleva un’unica associazione delle imprese, ma si è imposta la voglia di tornare alla vecchia cogestione con la Cgil

Confindustria? Un relitto 
Adesso vada in pensione

La crisi di Confindustria manifestatasi prima con lo scomposto agitarsi di Emma Marcegaglia, poi con «l’abbandono» della prima industria privata nazionale, la Fiat, è strutturale. Come tante cose arcaiche di questa nostra Italia, anche l’organizzazione degli imprenditori tende a perpetuare nel tempo comportamenti e modelli di altre epoche.
Nei grandi Paesi capitalistici l’associazionismo di impresa è ben più leggero del nostro, e assolutamente meno pervasivo e politicizzato. Da noi un certo carattere elefantiaco era determinato da fattori che ormai non reggono più.
Da una parte si sconta un lascito del fascismo che irreggimentò in modo corporativistico tutta la nostra società - lo sperimentano non di rado i giornalisti, soprattutto quelli non conformisti nei rapporti con il loro ordine - e c’era, poi, il peso della resistenza al Partito comunista più forte d’Occidente con i suoi legami organici con la Cgil. E c’era anche la surroga che la Confindustria dovette fornire all’impegno di una borghesia che, dopo essersi compromessa con Benito Mussolini, di fatto delegò alla Chiesa il compito di impedire a Palmiro Togliatti e ai suoi di accedere al potere.
Infine ci sono le trasformazioni organiche che questo stato di cose ha determinato nell’associazionismo «concreto» degli industriali: in particolare, il lungo scontro-confronto con un sindacato potente, politicizzato e centralizzato come la Cgil ha fatto crescere un apparato confindustriale simmetrico.
Potenti direttori di associazioni territoriali e di categoria che dovevano opporsi alle strategie politico-sindacali della Cgil, finivano per assorbirne la logica: il prestigio e l’influenza di questi apparati per durare nel tempo, in qualche modo alla fine aveva bisogno del prestigio e dell’influenza dell’interlocutore antagonista. Come ha detto Friedrich Nietzsche: «Se tu guarderai a lungo in un abisso, anche l’abisso vorrà guardare dentro di te».
Oggi l’impresa per competere nei mercati globali ha l’assoluta esigenza di disegnare un’organizzazione della produzione efficace e flessibile. Come dimostrano molti contratti di categoria e la crescita dei sindacati riformisti nelle aziende, tende anche a prevalere tra lavoratori e proprietà una concezione cooperativa e non conflittuale dei rapporti.
Prima delle sue uscite nevrotiche, la Marcegaglia d’intesa con Cisl e Uil aveva contribuito a svoltare verso questo nuovo. Lo stesso Sergio Marchionne, manager energico ma assai pragmatico, aveva intrapreso la sua nuova via, superando il rapporto di scambio politico con Stato e Cgil da decenni tradizionale per Torino, solo dopo questa svolta. È stato il movimentismo montezemoliano, insieme alle sbandate dei mercati globali che hanno prodotto la politicizzazione più recente di Confindustria, occasione subito sfruttata da settori dell’«apparato confindustriale» per cercare (con qualche successo) di tornare alla vecchia cogestione del potere con la Cgil. Però questa via non è facilmente percorribile perché si scontra con lo spirito dei tempi.
Ora ci vorrebbe uno scatto di chi punta sul cambiamento, riprendendo alcune idee di un vero innovatore, sia pure troppo irruente e un po’ astratto, come Antonio D’Amato che voleva un’unica associazione delle imprese come il Patronat francese, tale da tenere insieme dai commercianti agli industriali (ma non i tanto amati banchieri da Marcegaglia e Luigi Abete che sono una naturale controparte).

Come Viale dell’Astronomia chiede l’abolizione delle Province, così gli imprenditori dovrebbero chiedere il superamento di strutture elefantiache che servono solo a chi ci spadroneggia sopra.

Commenti