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Conquista l’Everest a 13 anni. Ma che impresa è?

Adesso va a finire che per colpa di un tipetto così, uno con la frangetta a scodella, uno in età da polluzioni notturne, insieme a un mito roccioso scompaia anche un consolidato modo di dire. Che senso avrà infatti, d’ora in poi, quella nostra esclamazione ammirata - «È come se avesse scalato l’Everest» - usata per commentare qualsivoglia impresa degna di nota? Che senso avrà se quella leggendaria vetta - perché la notizia è questa - è ormai alla portata di un moccioso?
L’involontario iconoclasta ha 13 anni. Si chiama Jordan Romero ed è di Big Bear, un puntolino sulla mappa della California, appena 5.779 anime, ma diverse centinaia di migliaia di conifere. Eppure proprio in quel puntolino lassù, in mezzo alle San Bernardino Mountains, a casa Romero qualche giorno fa è arrivata una telefonata da lontano. Da molto lontano. «Mamma, ti sto telefonando dal tetto del mondo!», ha gridato Jordan, abbracciato da papà Paul, un infermiere di pronto soccorso salito insieme con lui e con altri alpinisti in cima agli 8.850 metri dell’Everest. «Ti voglio bene, torna salvo a casa», gli ha risposto la donna, dimostrando quantomeno come le mamme di Big Bear siano fatte di un’altra pasta rispetto alle nostre, ancora ferme alla maglia di lana.
Non a caso, sul calendario di cucina, nel cottage di tronchi dove vivono i Romero, sono già state segnate almeno altre due future imprese dello stesso tenore. Con un cerchio rosso, proprio come fanno nelle famiglie normali per non dimenticarsi delle vaccinazioni o del controllo dell’apparecchio dei denti. Jordan, spalleggiato dal padre, si è posto infatti come obiettivo quello di riuscire a scalare le montagne più alte di tutti e sette i continenti. Ora, dopo la conquista dell’Everest, gliene mancano soltanto due.
Questa impresa adolescenziale ha oscurato quella dello sherpa Temba Tsheri, arrampicatosi sulla vetta del mondo quando di anni ne aveva 16. Ma ha anche dato inevitabilmente la stura a polemiche di diverso genere.
La prima è di ordine per così dire «tecnico-agonistico». Gli addetti ai lavori si chiedono insomma se per davvero queste montagne un tempo considerate inviolabili, non siano oggi quasi alla portata di una ferrata sulle Dolomiti. Del tipo: maglioncino di cashemere e poi la sera tutti a fare aperitivo giù a Cortina d’Ampezzo.
La seconda polemica, quella forse più seria, è di spessore sociale, se non sociologico. Perché l’impresa di Jordan, oggettivamente infarcita di rischi anche mortali, ripropone una volta di più il proliferare di un genere genitoriale abbastanza nefasto. Così c’è chi, per rifarsi dei propri personali sogni infranti o per banali mire economiche, vuole trasformare il suo bambino in un asso del calcio o del tennis. Ad ogni costo, anche a quello di rubargli la magia dell’infanzia.

E c’è chi fa di peggio, come il signor Paul Romero, infermiere di Big Bear, California, che si tira dietro sulle montagne più alte e pericolose del mondo un ragazzino. Il suo. Ma per i «suoi» sogni di gloria. Perché ora arriveranno le interviste, gli sponsor, i dollari.

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