Quando negli anni Settanta cominciai la mia crociata per ridare al mito lo spazio che aveva perduto nella creazione artistica dopo la Seconda Guerra Mondiale, sullidea di mito pesava ancora una condanna ideologica terribile. Alla maggioranza degli intellettuali italiani il mito sembrava qualcosa di nazista, arcaico, oscuro. Frutto di irrazionalismo o di estetismo. La letteratura doveva essere realista o sperimentale, neorealista o neosperimentale, lontana da ogni senso del mistero, del sacro, priva di simboli, di divinità, di energia epica. I poveri Pavese e Pasolini avevano dovuto censurare la loro spinta verso il mito (e forse morire) per poter essere accettati dalla loro parte ideologica, marxista e dogmatica. Il vecchio Montale aveva piegato verso il disincanto di Satura per dialogare con il proprio tempo disincantato.
Quando avevo trentanni, e lenergia incosciente di quella età, mi sembrava che fosse stato raggiunto il grado zero del senso, e che la letteratura avesse rinunciato al proprio dovere conoscitivo, propositivo, etico, per diventare semplice documento sociologico o gioco verbale. Non mi piaceva Moravia, mi disamorai subito di Sanguineti. E mi rimboccai le maniche di conseguenza iniziando a lavorare per rileggere il mito e coniugarlo in forme nuove. Per farne emergere la grande possibilità di conoscenza, la capacità di raccontare anima e mondo, la vicinanza al bisogno di sacro. Sono contento oggi di vedere lidea di mito proposta con così fitto argomentare da uno scrittore che stimo come Ferruccio Parazzoli. Condivido del tutto la sua battaglia contro il minimalismo autoreferenziale e il nichilismo debole. Sono in parte le idee agitate dal manifesto del «Mitomodernismo» pubblicato da me e Stefano Zecchi proprio su questo giornale anni fa. Credo che per definire lo spazio del mito oggi sia necessario identificarlo al contrario, attraverso quelli che ne sono lontani. Che sono ancora annidati in case editrici, giornali, teatro, cinema. E in genere tra gli scrittori più adulati e osannati.
Per dire, possibile che non sia venuto a nessuno in mente che lidea di Baricco di togliere gli dèi dallIliade è stato un gesto di totale ruffianeria minimalista-nichilista? Possibile che nessuno pensi che i romanzi che vincono lo Strega sono mediamente dei teneri o truculenti polpettoni dal pensiero molto debole, annunciati, cucinati e sostenuti in clima di leggerezza veltroniana? Possibile che lo pensi io solo? E quei bravi ragazzi volonterosi che hanno inventato la New Italian Epic, possibile che nessuno gli dica che, chiamandola così, si mostrano poco new, poco epic, e molto italian, cioè italiani provinciali affetti da esterofilia congenita?
Mito. Andatene a parlare a critici come Berardinelli, come Cordelli, come il suo doppio Cortellessa. Quelli credono ancora al meta-romanzo, sono pronti a idolatrare, che so, Pizzuto e a infierire contro Eco, che a suo modo ha tentato una fusione tra genere alto e basso non estranea a una componente mitica. Ma nonostante i suoi nemici, il mito resiste. La cultura italiana è vecchia, il mito è sempre giovane. È un Ermes puer che se ne fotte del conformismo, del potere, delle idee ricevute, e che ama traghettare scrittura e anima verso nuovi orizzonti, nuove utopie, nuove avventure misteriose.
D.H. Lawrence, il più generoso, sciamanico, preveggente scrittore del secolo scorso, vero genio mai abbastanza riconosciuto, aveva un potentissimo soffio mitico. Parlava di eros, natura, viaggi, popoli non europei. Qualcuno lo legge ancora, oltre me? Che mi sono sempre professato suo allievo, e ho scritto, inadeguatamente, sugli stessi temi. Tra i giovani, tracce di mito sono sicuramente in Scurati, il più letterariamente dotato insieme a Piperno, forse in Genna (che poi si sbrodola e straparla).
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