Consoli: sono in isolamento creativo

Paolo Giordano

Se ti dice così, se ti dice che «sto dedicando molto tempo alla riflessione», allora la vedi davvero, Carmen Consoli, nel suo studio a Catania, mentre aspetta che il mondo le passi attraverso per lasciarle nuove canzoni.
Stasera Carmen Consoli sarà a Torino, al Traffic Free Festival, e con lei sul palco porterà un po’ di Sud del mondo, cioè Virginia Rodrigues, che è la brasiliana più africana della world music, poi Lura di Capoverde e la coreografa giamaicana Jean Binta Breeze «ma lei l’ho scelta proprio perché è una poetessa». Dice che sarà una serata senza copione, per fortuna, e anche senza retorica «perché non c’è tempo: sono ancora qui che studio le canzoni da proporre loro, d’altronde io sono l'ospite no? Con Virginia faremo Cucurucucu Paloma di Caetano Veloso, con le altre chissà».
Perciò è ovvio che questo di Torino sarà un concerto con la porta chiusa perché è pur sempre un vero concerto (dopo i duetti, ci sarà la sua esibizione con violino e contrabbasso) e perché la sua porta è ancora sbarrata e di Carmen Consoli sarà in scena solo quello che filtra dalle persiane di casa.
Anche per questo non sarà domani al Live 8 di Roma e lo dice subito: «non è il momento». E quel suo «momento» racchiude quel piglio chiaroscuro e catanese che non ammette repliche. «Ho già scritto sette brani, diciamo che è come una gravidanza: sono al settimo mese però ne ho già scartati altri trentacinque perché con le canzoni si può: si mangiano, si masticano, si soffrono e poi magari si buttano. Voglio che sia il disco più bello della mia vita, che si sentano il mio isolamento, i miei viaggi, le mie tensioni. Vado spesso a Londra, a prender lezioni di melodia e dizione da una giamaicana, avanti e indietro, la mia vita è la musica e l’ho anche pagata cara, questa passione, sulla mia pelle e nelle mie giornate».
A febbraio è stata l’unica italiana a festeggiare con i rasta ad Addis Abeba il compleanno del reggae e di Bob Marley (sessant’anni, se fosse ancora qui) ed era anche l'unica con la pelle chiara, anzi d'avorio, «anche se parlavo qualche parola di etiope mentre tutti i giamaicani sapevano solo l’inglese». Quando ha iniziato a cantare, sul foglietto del direttore di palco c’era scritto «Carmen Consoli non deve esibirsi»: «L'ho visto io, un’avvocatessa della Fondazione Marley mi voleva escludere perché sono bianca». Così sono partiti i primi muggiti dalla platea. «Poi è piombata in scena Rita Marley ed è finito tutto, silenzio improvviso».
Ad aprile, tre piccoli concerti strapieni in America, dove la Consoli ha girato «col furgoncino, ho cantato anche E se domani di Mina raccontando l'Italia di Bruno Martino, mica solo la mia» mentre anche il New York Post la raccontava con i punti esclamativi. L’abilità antica e sorprendente della Consoli è la verniciatura delle parole: nel periodo dell’«importante» o dell’«assoluto» c’è un gusto quasi filologico, ed educatamente snob, nell’usare un vocabolo come «considerevole», che era poi il centro del ritornello de L'eccezione (Se è vero che ad ogni rinuncia/ corrisponde una contropartita considerevole).
«Stavolta sono molto contenta, il disco me lo coccolo e uscirà solo quando sarà mio fino in fondo.

Sono convinta di aver fatto un passo avanti, di aver imparato a descrivere le mie cose in terza persona come mi era già riuscito in Matilde o Fiori d’Arancio. Avevo detto che sarebbe stato il mio ultimo disco. Ma non è vero. Io sono lo specchio di ciò che mi circonda, ho solo bisogno di lasciar sedimentare le mie emozioni finché non si riapre di nuovo la porta».

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