di Vittorio Sgarbi
È con costernazione che si leggono le riflessioni di alcuni critici a margine delle anticipazioni sul nuovo libro di Jean Clair, Lhiver de la culture. Intervengono sul Corriere e sul Giornale Gillo Dorfles, Luca Beatrice, Achille Bonito Oliva, Francesco Bonami, Massimiliano Parente. Li accomuna uninesperienza e una parziale cecità davanti allopera darte che li costringe a muoversi su idee generali che rivelano la loro indifferenza, quando non incompetenza. Larte contemporanea genera mostri tanto tra gli artisti quanto fra i critici. Nellarte chi è incapace di vedere e riconoscere unopera antica e la sua autenticità può esprimere pensieri, e perfino giudizi, su ciò che essa sia oggi. Jean Clair cerca di spiegare, con esempi, ciò che appare ed è «simulacro, imbroglio, scarto, parola di riflessi condizionati, dispersione, vaporizzazione»: ciò che, con efficace sintesi, il pittore Leonardo Cremonini aveva definito «arte applicata». Per distinguerla da quella che disperatamente evoca Jean Clair che è l«arte implicata». Perché continuiamo a guardare, interminabilmente contemporanei, Rembrandt, Caravaggio, Michelangelo, Chardin, Antonello, Giorgione, Tiziano? Perché ciò che hanno concepito ci riguarda oggi. E centrano poco le riflessioni sul costo di un quadro di Lorenzo Lotto proposte da Parente. Il problema non è che gli artisti siano pagati! Figuriamoci per Clair, già direttore del Museo Picasso, che certo non si scandalizza per le quotazioni del grande artista spagnolo, di Van Gogh o di Pollock. Il problema è linconsistenza (che si esaurisce in una battuta non approvata) delle proposte di Cattelan, Hirst o Koons. E la risposta non può essere né quella di chi considera Clair reazionario (con ciò compiacendolo), come fa Dorfles, né quella di chi, come Beatrice, ne condivide lo spirito e però contesta il richiamo a testimonianze «autentiche», a «interrogazioni assolute e drammatiche» che Clair evoca ma che non possono essere cercate «nellantica figurazione di un Freud o un Music perché, per quanto si parli di grandi maestri, siamo in presenza di un linguaggio troppo antico e lontano inadatto a spiegarci come siamo oggi». Ingenua riflessione, se si pensa che il marmo di Carrara lo ha usato Michelangelo ma lo possono usare anche artisti innovativi o concettuali come Jan Fabre e lo stesso Cattelan. Dunque la questione estetica non può essere schiacciata sulle tecniche, su linguaggi troppo antichi, sullinutilità dell«abilità artigiana». Troppa confusione in queste letture, anche se non raggiungono linfantilismo critico di dilettanti come Bonami o Bonito Oliva che stanno allarte come Lele Mora e Fabrizio Corona stanno al cinema o Pupo sta alla musica classica. Con questi strumenti pretendono di giudicare Clair che è lequivalente di Riccardo Muti nel mondo dellarte. Lantico Dorfles intuisce che il disprezzo di Clair per certe forme artistiche, benché «reazionario» si rivolge alle degenerazioni «di eccessi in eccesso, verso la pura performance». Ma le pagine di Clair, come quelle dei compianti Arcangeli, Testori, Tassi, Briganti, Soavi, Carluccio (che per primo osò portare al centro della Biennale, nell80, Balthus), restituiscono lemozione del rapporto con lopera compresa nella sua verità e nella sua spiritualità. Arte che implica e coinvolge come quella di Van Gogh, Bacon, Giacometti, Varlin, López García, Enzo Cucchi, Jenny Saville, per citare alcuni, arte che riguarda luomo: «Senza questo dramma larte non vale niente, non dice niente, è irresponsabile», dice Clair.
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