Conti pubblici e questioni istituzionali

Francesco Damato

Giulio Tremonti ha forse voluto onorare il suo ruolo di vice presidente della Camera chiudendo rapidamente la polemica aperta domenica mattina con il capo dello Stato dopo averne seguito l’intervento in videoconferenza al convegno annuale di Ambrosetti a Cernobbio. Per quanto accusato di avere «strumentalizzato» le parole di Giorgio Napolitano interpretandole in funzione di una nuova edizione del «compromesso storico» sperimentato trent’anni fa dalla Dc e dal Pci, confluiti nella stessa maggioranza pur essendosi appena misurati come antagonisti nelle elezioni, Tremonti ha accettato per buona la versione quirinalizia di un intervento svolto dal presidente della Repubblica solo per chiedere «un confronto più pacato e costruttivo tra maggioranza e opposizione».
Senza avere la pretesa, per carità, di immaginare una replica alla quale Tremonti può avere rinunciato per comprensibili ragioni di galateo istituzionale, non mi sembra che le parole del capo dello Stato giunte a Cernobbio possano essere liquidate solo come l’ennesimo, innocuo, doveroso invito al governo e all’opposizione a non prendersi a schiaffi, o quasi. Sì, c’è stato anche questo in quell’intervento. Ma ben prima e al di là di questo c’è stato dell'altro. C’è stata la pretesa del presidente della Repubblica di inserire tra le materie «istituzionali» che imporrebbero la collaborazione generale di tutte le forze politiche anche la legge finanziaria perché «il risanamento dei conti pubblici» risponderebbe ad impegni presi con l’Unione Europea da questo ma anche dal precedente governo, che era guidato da Silvio Berlusconi.
Se è per questo, anche le leggi finanziarie approvate dal centrodestra nella scorsa legislatura, e le relative manovre correttive, rispondevano agli impegni derivanti dalla partecipazione dell’Italia all’Unione Europea. Ma non per questo l’opposizione di allora si sentì obbligata a sostenerle o solo a mitigare la sua azione di contrasto. Lo stesso Napolitano, d’altronde, nel suo intervento ha dovuto riconoscere che «sul modo di realizzare» il risanamento dei conti pubblici imposto dal rispetto dei parametri europei «è assolutamente naturale e fisiologica una diversità e una dialettica di posizioni tra maggioranza e opposizione». Dov’era ed è allora il problema?
A parte il fatto che i contrasti sul modo in cui risanare i conti pubblici esistono all’interno dello stesso governo, Napolitano ha troppa esperienza, direi anzi professionalità politica, a differenza del suo predecessore, per non sapere e non capire che l’indubbia asprezza dei rapporti fra opposizione e maggioranza nasce da due fattori su uno dei quali anch’egli si è assunta una parte di responsabilità. Il primo fattore, per lui certamente incolpevole, è l’assai modesto e non del tutto limpido risultato delle elezioni politiche d’aprile, vinte per il rotto della cuffia da una coalizione che a Palazzo Madama si regge sulle stampelle dei senatori a vita. Il secondo fattore è la protervia con la quale la pur risicata maggioranza ha voluto fare il pieno delle cariche istituzionali. Essa si è limitata, almeno per i miei gusti, a mandare al Quirinale non Massimo D'Alema ma un suo compagno di partito più incline alle buone maniere.

Le quali però non possono bastare a contenere i danni apportati al quadro politico, aggravati peraltro dall’offensiva riaperta contro il leader principale dell'opposizione sul conflitto d'interessi.

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