nostro inviato a Napoli
Per capire se il tribunale di sorveglianza prenderà finalmente atto delle drammatiche condizioni di salute di Bruno Contrada e della ferma richiesta avanzata ieri dal sostituto procuratore generale («scarceratelo immediatamente»), non resta che affidarsi a Dio. E alla cabala. Perché i giudici chiamati a decidere sul detenuto moribondo, hanno preso ancora tempo. E perché i numeri del caso-Contrada potrebbero ben essere giocati sulla ruota della mala-giustizia napoletana: 77, sono gli anni del superpoliziotto; 22, i chili persi in un solo anno; 26, le patologie accertate, di cui 7 definite «gravi»; 5, i ricoveri in ospedale; 15, gli accertamenti diagnostici; 12, le perizie medico-legali esperite; 21, le istanze di scarcerazione respinte; 16, i viaggi in ambulanza; 5, gli anni di pena già scontati (31, i mesi d'indegna carcerazione preventiva). Numeri raccapriccianti. Da brivido. Da Paese incivile. Quale si dimostra l'Italia, che insiste ancora a umiliare il più vecchio detenuto del carcere di Santa Maria Capua Vetere nonostante sia chiara a tutti la sua totale incompatibilità con la detenzione. A tutti, tranne a coloro che hanno finora giudicato «gravi ma non gravissime» le condizioni dell'ex funzionario del Sisde. Tipo quel magistrato di sorveglianza che a metà luglio, nel rigettare l'ennesima richiesta di liberazione, è arrivato a sostenere che in un soggetto anziano, la sofferenza aggiuntiva provocata dalla privazione della libertà, assume rilevanza solo quando si configuri di entità tale «da superare il limite dell'umana tollerabilità».
Nonostante l'avvocato Giuseppe Lipera abbia chiesto ai magistrati di decidere in fretta onde evitare un supplemento d'ansia al suo assistito (apparso stanco e debilitato in aula), la decisione non è arrivata. I giudici si sono ritirati in camera di consiglio e non sono più riapparsi. Eppure il sostituto procuratore generale Ugo Ricciardi, in mattinata, era stato chiaro e di poche parole nel dare parere favorevole alle istanze di differimento della pena di Bruno Contrada. L'ultima perizia medica, infatti, non ha avuto bisogno dei soliti accertamenti suppletivi. La relazione redatta da Silvio Buscemi, docente di Scienze dietetiche dell'università di Palermo, confermava – aggravandola – la sfavorevole prognosi a rischio vita, «con oltre 20 chili persi in meno di un anno, una grave forma di deperimento organico caratterizzata da progressivo deterioramento di tutte le funzioni metaboliche, con debolezza, anoressia, dimagrimento, ed escavazione dei tratti somatici. Uno stato di salute assolutamente incompatibile con lo stato di detenzione».
Quando ha sentito il pg esprimersi a quel modo, Contrada ha avuto un sussulto ed ha sgranato gli occhi. S'è girato lentamente verso il suo avvocato, con lo sguardo ha chiesto conferma se avesse capito bene, poi è tornato a logorarsi nei suoi pensieri, a rinchiudersi in se stesso. «Non ha proferito parola – dice l'avvocato Lipera – è rimasto immobile, come un totem. Vuole aspettare l'esito della decisione prima di aprire bocca». Una volta tornato in carcere, prima dei saluti sulla porta carraia, ha abbracciato il legale e all'orecchio ha sussurrato: «Io non mi illudo, caro avvocato. In 16 anni non sa quante delusioni ho ricevuto dalla giustizia, non le conto nemmeno più...».
Se la politica fa sentire la sua voce con Amedeo La Boccetta di An («si ponga fine a questo calvario») e Margherita Boniver («basta con una persecuzione giudiziaria ignobile e incomprensibile) la sorella di Contrada, Anna, incrocia le dita. E prega, dopo aver chiesto al cardinal Angelo Bagnasco di attivarsi per impedire che il fratello venga giustiziato con una lenta eutanasia detentiva: «Bruno sta morendo di dolore e le sofferenze lo colpiscono nel corpo e nell'anima – ha scritto in una lettera al presidente della Cei – una sua parola può evitare che venga giustiziato. Perché, come Eluana, è stato condannato a morte da un giudice».
La giornata finisce senza sussulti. Cala il buio, Contrada rientra in cella.
gianmarco.chiocci@ilgiornale.it
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