Di fronte al dilagare della nuova Tangentopoli, riaffiora sicuramente in molti italiani onesti la tentazione di dimettersi da cittadini. Di affermare cioè con un atto solenne il proprio distacco non solo dalla palude ammorbante del malaffare, ma anche da istituzioni incapaci di bonificarla. Si ha l’amara sensazione che il Paese perbene viva da decenni in stato d’assedio.
L’offensiva giudiziaria in corso colpisce bersagli di sinistra, i sommi moralizzatori del Pd tremano per il tintinnare delle manette che li mandò in estasi quando riguardava i loro avversari. Capisco che possa esservi, nel centrodestra, un’acre soddisfazione per questo contrappasso. E mi sembra patetica, oltre che querula, la cocciutaggine con cui l’Unità di ieri ribadiva, a firma di Concita De Gregorio, che «gli altri - ossia i biechi reazionari - sono peggio». Si consoli pure Concita, aggirandosi tra le macerie veltroniane, se questa attenuante di comodo le basta. Ma vale zero.
Io non vedo attenuante che tenga nel crollo degli argini di moralità e di affidabilità pubblica, nella messa sotto accusa di personaggi che dagli elettori hanno avuto fiducia e che l’avrebbero ricambiata facendo strame della loro onorabilità. Ho a mente il precetto secondo cui nessuno può essere ritenuto colpevole fino a sentenza passata in giudicato. Il che avviene anni e anni dopo l’inizio d’una inchiesta. Conosco inoltre gli slanci esibizionistici e le disinvolture mediatiche d’alcuni magistrati italiani. Sia la presunzione d’innocenza - fin troppo insistita - sia il farfalleggiare vanitoso e a volte fazioso delle toghe sono stati da noi sottolineati quando infuriava la Tangentopoli originaria da cui i partiti anticomunisti furono folgorati.
È opportuno sottolinearli di nuovo, mentre ne soffrono le conseguenze i partiti postcomunisti. Diamo dunque per scontato che alcuni procedimenti si rivelino, dal punto di vista penale, bolle di sapone. Ma neanche questo, se si verificherà, basterà per acquietarci.
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