Controcanone della poesia italiana da Calogero a Ruggeri. Ecco gli outsider che andrebbero letti al posto dei soliti noti

Sono autori diversi tra loro ma tutti hanno vissuto la solitudine e attraversato il dolore. I numi tutelari sono Boine, Onofri e Campana

Controcanone della poesia italiana da Calogero a Ruggeri. Ecco gli outsider che andrebbero letti al posto dei soliti noti

Sul gonfalone di Melicuccà spiccano le api: pare che il toponimo significhi "conca del miele". Un tempo in questo comune conficcato sulle pendici dell'Aspromonte vivevano quasi cinquemila abitanti, ora sono poco più di settecento. Alle dimore sette e ottocentesche, bellissime perché desolatissime, arnie di pipistrelli, si alterna un coerente disastro; nei boschi di ulivi, titanici, abitano, per lo più, cinghiali e tassi; hanno reintrodotto il lupo, che irretisce gli allevatori. Dall'alto, il mare è un sogno omerico, di odisseiche ragazzate. Non credo sia un caso che a Melicuccà sia morto Lorenzo Calogero, tra i grandi misconosciuti poeti italiani del Novecento: nel quarto libro delle Georgiche, quello dedicato all'apicoltura, Virgilio parla di Orfeo, il poeta primigenio, il leggendario cantore che incantò con i suoi versi gli inferi, tentando di far risorgere Euridice. Lorenzo Calogero, poeta e medico condotto, fu trovato morto, dopo tre giorni, nella piccola casa di Melicuccà, era il 25 marzo del 1961. Svanì nel miele. L'anno dopo, l'editore Lerici raccoglie in due volumi le sue Opere poetiche, microscopica porzione di un'opera inarginabile, che culmina nei potenti Quaderni di Villa Nuccia, scritti in un ricovero per malattie nervose. Su Paese Sera, nel luglio del '62, Leonardo Sinisgalli parlò di una poesia "che sconcerta e affascina", di "un'estasi ininterrotta", snocciolando i nomi di Rimbaud e di René Char. Pubblicata, nei decenni, in modo disordinato per Rubbettino e Donzelli, più di recente, per Lyriks, è uscito un volume di Poesie scelte la poesia di Calogero attende ancora degna sistemazione editoriale. Da qualche anno, Aldo Nove si fa carico di divulgare l'opera del poeta: a Melicuccà si è inventato una Festa della Poesia in suo onore. Quando lo incontro indossa l'azzurro e calzini griffati Xanax; fa la voce chioccia, mi chiama "Brillo". Insieme, mentre la notte inarca il collo, ha il pelo grosso, ipotizziamo un canone "avverso" della poesia italiana. Un canone, cioè, di extracanonici, di fuorilegge del linguaggio, di briganti lirici, come Lorenzo Calogero. Di poeti avversati dal costume letterario del tempo, avversari della quiete lirica; di poeti avventati.

Questa superba "avversità" si declina in alcune caratteristiche. Intanto: questi poeti, pur riconosciuti da alcuni, hanno abitato una solitudine spiazzante, pubblicando semmai per piccoli editori, pressoché sconosciuti ai più, restii alle carcasse dei premi letterari. Spesso ma la poesia non ha mai la cautela di un "metodo" , hanno avuto vita infame, di insanie, da reietti. Il linguaggio portato da tali poeti è aurorale, preadamitico, da primo giorno del mondo. Pur non potendo generalizzare ciascuno di questi poeti è un mondo, a tratti sigillato si tratta di un verbo che ci porta nell'aldilà del senso, screanzato, violento per vigoria: le parole vengono trafitte fino a sanguinare, sfregiate fino a svelare la loro moribonda verità. A differenza di altri sobillatori del linguaggio Amelia Rosselli, Andrea Zanzotto, Antonio Porta, ad esempio la ricerca di questi poeti non si fa accerchiare dalla critica, pare non avere padri: di solito, è contraddistinta da una mole senza molatura ergo: quintali di quaderni ancora da sviscerare e dalla monotonia, intesa in senso di sciamanico sciabordio. Si tratta, insomma, di poeti che non hanno messo a frutto il proprio disordinato talento, per una tenace quando non: patologica impossibilità di scendere a patti col tempo. Apocalittici, potremmo dire, se per apocalisse intendiamo lo smisurato che divora, la rivelazione costante e costantemente fraintesa , tra aquila e colibrì.

Cominciamo a sciorinare i nomi, in un percorso ancora ipnotico, che va per ipotesi. Se Lorenzo Calogero è il cuore di questo canone "avverso", i suoi predecessori sono Dino Campana (la cui completa "canonizzazione", al di là della trita leggenda, è accaduta soltanto lo scorso anno con il Meridiano curato da Gianni Turchetta che raccoglie L'opera in versi e in prosa), Arturo Onofri, poeta occulto e straordinariamente fecondo, Giovanni Boine. Gli avi vanno visti nella via sinistra, nottambula della poesia italiana; a titolo di esempio: Iacopone da Todi, Burchiello, Galeazzo di Tarsia, Torquato Tasso.

Coetaneo di Calogero, il goriziano Gian Giacomo Menon (1910-2000) nacque Futurista pubblicò a sue spese Il nottivago, ricevendo il plauso di Marinetti , fu insegnante al liceo Stellini di Udine, amava Michelstaedter, Pascal, gli Stoici e le jeunes filles. Scrisse di aver scritto "più di 1 milione di versi cominciati a scrivere a 11 anni", lasciati, per sua scelta, inediti. La poesia di Menon, incessante mitragliata di frantumi eraclitei, è curata, in più volumi, ancora parziali (ad esempio: Geologia di silenzi, Anterem, 2018 e Poesie inedite 1968-1969, Aragno, 2013), da un devoto ex alunno del poeta, Cesare Sartori.

Di altra generazione sono tre poeti, quasi gemellari, dall'esistenza dispari, con picchi in tragedia. Il caso di Ivano Fermini (1948-2004) richiama un vuoto echeggiante, la pretesa di incenerire il mondo alla fiamma albina del linguaggio. Autore di due libri eccezionali Bianco allontanato, 1985 e Nati incendio, 1991 presto dimenticati, di "una poesia così affilata" che "non può sprecare parole, deve essere esatta" (così Milo De Angelis), Ivano Fermini, "un caso unico nella poesia italiana un inesausto entrare nelle acque della rigenerazione e dell'oblio" è stato recentemente riscoperto da Aldo Nove, che ha raccolto per le edizioni Magog, con il titolo complessivo Nati incendio, i suoi libri più importanti. Di Giuseppe Piccoli, quasi coetaneo di Fermini (nacque a Verona nel 1949), stordisce, da subito, il dramma. Nel settembre del 1981, "in un attacco di schizofrenia", il poeta assale i genitori: il padre muore in ospedale poco dopo. Internato nell'Ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia, Piccoli transita per diversi reclusori; nell'ultimo, quello di Aversa, nel febbraio del 1987, si toglie la vita. Nicola Crocetti ha scritto che "Giuseppe Piccoli è un ottimo poeta, uno dei migliori della sua generazione"; Maurizio Cucchi lo ha installato nell'antologia mondadoriana Poeti italiani del secondo Novecento (2004), scrivendo di una "dolce grazia che sempre nasconde uno scatto interno, un fendente": di fatto, la sua opera è scomparsa dal consesso editoriale. Al contrario, di Dario Villa (1953-1996) è prossima la pubblicazione dell'Opera in versi (Crocetti, 2025), di alchemica bellezza, tesa tra nonsense e apoftegma, tra humour nero e oracolo. Del poeta dandy, dal fascino conturbante, traduttore, tra l'altro, di William Blake il suo mentore, Giovanni Raboni, scrisse che "pochissimi poeti italiani, negli ultimi decenni del secolo appena trascorso, sono stati così costantemente, oserei dire così insistentemente frequentatati dalla grazia". Lo stesso si può dire intendendo per grazia una augustea condanna di Claudia Ruggeri (1967-1996), poetessa napoletana dal genio cruento, riconosciuta da Dario Bellezza e da Franco Fortini. Scelse di morire a ventinove anni era bellissima.

Quando una signora, a Melicuccà, mi blocca per strada dicendomi,

"sa, Calogero mi ha salvato la vita, ero neonata", dicendomi cose che non posso ancora dire, mi dico, il poeta, l'eterno neonato, ci salva la vita. È così, è vero. Il poeta muore, avversato da tutti, per salvarci la vita.

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