Controcorrente Negli Stati Uniti alcuni ragazzi credono in una versione meno restrittiva della religione coranica e manifestano il dissenso attraverso scritti e musica. Non sempre le comunità bigotte apprezzano

Quando emerse nei primi anni ’90 in un mondo dell’arte dominato dal maschio occidentale, furono in molti a gridare al miracolo. Un’esile figura magra nascondeva la determinatissima Shirin Neshat, iraniana del 1957, la prima donna proveniente da quella parte di terra - che sembrava lontana ora come lo sembra adesso - a ottenere successo in America e in Europa. Cominciò con fotografie in bianco e nero, ritratti di donne avvolte nel chador, sui cui pochi centimetri di pelle scoperta (il viso, le mani) scriveva in antica calligrafia persiana versi di poesie d’amore, utopico contraltare all’atteggiamento bellicoso simboleggiato dei loro fucili. Un lavoro che colpì, fin dall’inizio, per la sua ambiguità: moderno ma radicato nella tradizione, desideroso di altro ma senza rinunciare a riflettere sul bagaglio scomodo ereditato da madri e sorelle. Perché le donne di Neshat lottano sì contro le ingiustizie della sua cultura, eppure non la rinnegano, sapendo che in fondo l’ostacolo più alto all’emancipazione dalla dittatura è proprio la resistenza del sistema patriarcale ad accettare il nuovo, e con esso una diversa e possibile libertà.
In poco tempo da fenomeno di culto (le sue foto all’epoca costavano pochissimo, chi le ha comprate ha fatto affari d’oro) Shirin Neshat è salita al ruolo di protagonista dell’arte internazionale (personali alla Tate di Londra, al Guggenheim di New York e in tanti altri musei) diventando una specialista nel video. Dapprima installati su schermi multipli o contrapposti, hanno poi puntato sul linguaggio filmico, fino a diventare vero e proprio cinema. In particolare nel trittico composto da Turbulent, Rapture e Soliloquy (1998-1999) ha affinato lo stile, accentuando l’effetto narrativo, coinvolgendo autentici specialisti, tra sceneggiatori, direttori della fotografia e compositori quali Philip Glass, per un prodotto davvero sofisticato e teatrale, curatissimo nei dettagli e nelle ambientazioni: i suoi personaggi sembrano ora modelli da sfilata, il taglio delle inquadrature suggerisce più legami con la foto di moda che con quelle d’arte, l’atmosfera glamour la vince sull’originario neorealismo. Insomma proprio quest’iperformalismo, mescolato ovviamente a storie intrise di sociale e politico, l’ha resa un prodotto internazionale e l’ingresso nel mainstream le ha tolto un po’ di quella grana sporca e rugginosa che l’aveva fatta apprezzare agli inizi.
Tutto faceva dunque presupporre che prima o poi Shirin Neshat si sarebbe confrontata con il cinema «vero», che dal contesto protetto dei musei finisce nelle sale affrontando il giudizio del pubblico, sperando in un successo analogo a quello di Julian Schnabel, un vero talento nella pittura e dietro la macchina da presa. Alla scorsa mostra del cinema di Venezia, medesima edizione che ha visto l’esordio da regista di un altro vip, lo stilista Tom Ford, Shirin presenta il suo primo lungometraggio Donne senza uomini, tratto dal romanzo della connazionale Shahrnush Parsipur, premiato con il Leone d’Argento e ora in distribuzione nelle sale italiane.
Raggiungendo l’apice del suo stile evocativo e manierato, desunto dall’autore che lei dichiara suo maestro, Abbas Kiarostami, nel film si intrecciano quattro storie di donne diversamente private nella loro libertà sentimentale, sessuale, sociale o religiosa. La suicida Munis, ossessionata dall’integralismo del fratello, che ritorna alla vita - lei o il suo fantasma? - partecipando al colpo di stato in favore dello Scià; la prostituta Zarin, consumata in un corpo anoressico che tenta un drammatico rituale di purificazione, nello stile delle più cruente azioni di body art; Faezeh, stuprata e costretta alla sudditanza maschile; Fakhiri, aristocratica che tenta la rivincita di un’esistenza costretta entro codici sociali, emancipandosi dal ruolo di moglie.
Alcuni silenzi possono sembrare troppo lunghi e gli slow motion - come il volo in apertura, simbolo di caduta e rinascita - eccessivi e stucchevoli. Sull’impianto narrativo prevale il silenzio e la perfetta calibratura di ogni singolo ciak, filmato in Marocco. Insomma, ogni tanto ci si perde nell’autocompiacimento estetico. Sottofondo reale è l’Iran del 1953, mentre il rimando attuale giunge solo alla fine, con la dedica alla rivoluzione verde. Shirin Neshat porta così a compimento la sua più riuscita opera di videoart, ancora adatta a un pubblico di nicchia in grado di godere del respiro prolungato di un ritratto e del paesaggio sonoro di un giardino.

Il film si nutre di eccezionali primi piani ed è intriso di manierismo pittorico, con citazioni fedeli all’Ofelia preraffaellita di Millais. A tanto rigore algido fa eco un copione che sfuma parole e silenzi con le atmosfere musicali di Sakamoto.

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