Convertiti all’islam non per Maometto ma sognando l’harem

Egregio dottor Granzotto, gradirei un suo parere sulla notizia apparsa in questi giorni circa il crescente numero di conversioni alla religione islamica riscontrate in Gran Bretagna. A me sembra che in ultima analisi, con quell’abiura, si decida di tornare al Dio della Bibbia, crudele e vendicativo, rinnegando un Dio reso Padre dalla bontà e dal sacrifico di un Figlio. Temo di banalizzare il problema, ma vorrei sapere se e dove sbaglio nel mio giudizio.
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Forse il suo giudizio è troppo generoso, caro Pompei. Lei ritiene infatti che la conversione di quel migliaio do inglesi sia il risultato di una lunga e perché no sofferta riflessione spirituale sul divino e il trascendente (ma in tal caso il nuovo Dio al quale sottomettersi e affidarsi sarebbe quello «Grande e misericordioso», «Colui che perdona», come vuole il Profeta Maometto). Ho letto di recente (sulla carta) brani di corrispondenza fra una blogger, certa Lia, e i suoi proseliti: «Io sarei vagamente filoislamica», scriveva, perché fra tutti i credenti «quelli che mi trasmettono più serenità, quelli che mi angosciano di meno, sono i musulmani». Io, che sono cristiano e non «vagamente», tutta questa serenità e misericordia e perdono poco la vedo nell’islam. Ma chi ragiona con altra testa, evidentemente sì. Vai a sapere. Il fatto è che le conversioni non sono tutte sorrette dalla fede, caro Pompei. Può ad esempio sorreggerle l’ideologia (islam uguale antisionismo e antioccidentalismo, l’islam è dalla parte di palestinesi eccetera). O anche la moda, da un ghiribizzo prevalente. Come fu il caso di tante «conversioni», qui le virgolette sono di rigore, al buddhismo o ad altre religioni orientali con l’accompagnamento di decantatissimi soggiorni negli ashram, nelle comunità di preghiera e meditazione (per «ritrovare se stessi», manco a dirlo) o in esotici romitaggi. Nei tempi in cui il convertirsi era detto abiurare, molti si «fecero mori» per sete di guadagno o di potere, altri per i vantaggi sessuali - possibilità di mettersi su un harem, di ripudiare le mogli senza star lì a perder tempo, di disporre di schiave e concubine - e altri ancora perché talvolta si è costretti a fare di necessità virtù. Nur-Banu, la «principessa della luce», la concubina che Solimano il Magnifico passò al figlio, Selim II - al quale Nur-Banu diede Murad, l’erede al trono - si chiamava in verità Cecilia Venier, nipote del Doge Sebastiano. Cresciuta cristiana, finì musulmana (pare fosse molto bella e molto pugnace - ma le venete si sa - tanto da dare assai filo da torcere a Roxana, altra rinnegata, una ucraina figlia di un pope ortodosso, la preferita di Solimano e prima dama del Topkapi). Rinnegato fu il primo ammiraglio della flotta del Sultano che a Lepanto dovette vedersela, buscandole, con quella di don Giovanni d’Austria, Ulug Alì Ucciali, al secolo Giovanni Galeni da Isola Capo Rizzuto, in quel di Crotone. Certamente mosso all’apostasia dai privilegi sessuali che la nuova fede assicurava fu il genovese Machmet Bey che divenne Pascià di Tripoli concedendosi un harem di ottantaquattro escort. Hassan Haga, reggente di Algeri, era un sardo. Un gran numero di pirati barbareschi che infestarono le coste sarde, siciliane, calabre e pugliesi erano, appunto, sardi, siciliani, calabresi e pugliesi che abiurarono per poter compiere le loro scorrerie con la benedizione di Allah (e l’appoggio logistico dei suoi fedeli, in primis).

Storia interessante, quella dei «turchi di professione», com’erano sprezzantemente chiamate quelle canaglie. La razza dei voltagabbana non per ideale, ma per tornaconto, che non ha mai smesso di proliferare.
Paolo Granzotto

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